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Fandom: Hamilton
Rating: Safe
Wordcount: 1637
Iniziativa: CowT 9

« Quindi devo fare così? Sembra un poco difficile come cos--- ahia »

John fece un salto all'indietro, portandosi l'indice alle labbra e lamentandosi a bassa voce. Lafayette, che lo stava guardando armeggiare con il mazzo di rose appena arrivato con aria fin troppo divertita, scoppiò a ridere.

« Non, mon cher. Direi che quello è decisamente un metodo poco funzionale. A meno che tu non voglia continuare a rendere le tue dita un puntaspilli. »

John alzò la testa su di lui, il labbro inferiore che sporgeva in un'espressione parecchio offesa. Lafayette sapeva che avrebbe dovuto pentirsi per averlo preso in giro, ma John sembrava solo più carino così, il che non aiutava la sua causa.

« La vuoi smettere di ridere e dirmi cosa devo fare?! »

Sbuffò John, mettendo le mani sui fianchi e guardando Lafayette con la fronte aggrottata. Il francese dovette concentrarsi parecchio per riuscire a smettere di ridere e tornare a fare il bravo insegnante. Probabilmente era quello il motivo fondamentale per cui non avrebbe mai potuto fare il professore...

Si avvicinò al tavolo da lavoro e prese delicatamente il mazzo di fiori che John aveva lasciato cadere sparso per tutto il tavolo, riordinando tute le rose e sistemandole al loro posto.

« Prima di tutto, visto che rischi di farti male perché non sai ancora cosa fare dovresti indossare dei guanti. Ce ne sono delle paia nel mobiletto, prendili pure. E poi, devi sempre stare attento a non farti pungere dalle spine, e se succede dovresti subito disinfettarti. A proposito, fallo. »

Gli ordinò senza guardarlo, mentre sistemava con attenzione i gambi dei fiori. John annuì e corse all'armadietto, prendendo guanti e disinfettante e passandone un po' su un pezzo di cotone per avvolgerlo intorno al dito. Sembrava aver smesso di lamentarsi, almeno per ora. Per fortuna, il suo rancore durava sempre molto meno di quello di Alexander, ad esempio, che era in grado di tenergli il broncio per una cosa simile per settimane. Lavorare con John era un dono del cielo, a confronto. La sola idea lo faceva tremare.
Una volta finito di sistemare le rose, Lafayette lasciò il mazzo ben composto da parte, e si dedicò invece ad alcune piantine che aveva messo su uno scaffale poco lontano. John alzò la testa con aria curiosa, e si avvicinò per vedere di cosa si trattava.

« Hey Laf, quelle sono piantine vero, non fiori? »

Lafayette annuì tranquillo, prendendone due e poggiandole sul banco di lavoro.

« Devo travasarle in modo che crescano meglio, e poi devo consegnarle. Ma solo quando saranno abbastanza grandi e abbastanza belle. »

Spiegò con tono assorto, concentrato nella scelta del vaso adatto per entrambe le piante. Tirò fuori due vasi più grossi, e ci versò dentro del terriccio aggiuntivo. John rimaneva dietro di lui con aria curiosa, osservando tutto ciò che faceva mentre si teneva il dito coperto dal cotone. Lafayette era abbastanza sicuro che quella ferita non l'avesse menomato e che ormai non gli facesse più male, ma se era cosi curioso di vedere come trattare le piccole piante oltre che i fiori, tanto valeva che stesse a guardare. In fondo, il pomeriggio era iniziato da poco ma in negozio non si era ancora visto nessuno, e se Lafayette aveva imparato qualcosa del proprio lavoro era che ben poche persone avevano voglia di comprare mazzi di fiori il lunedì. Quindi, tanto valeva mostrare a John qualcos'altro che gli sarebbe stato comodo, prima o poi.

Lentamente estrasse la prima pianta dal suo vaso, attento a non rovinare le radici, e con gesti delicati e gentili la posò nel vaso nuovo, dove stava decisamente più comoda. Avvolse con attenzione tutte le radici col terriccio nuovo, per poi compattarlo bene e decorarlo con qualche pietra bianca. Aggiunse altre decorazioni sul terriccio e tra alcuni dei piccoli rametti, attento a non dare troppo fastidio alla pianta.

« Wow, è bellissimo a vedersi e sembra super difficile da fare, invece ci va poco. »

Lafayette si voltò a guardarlo, facendogli l'occhiolino.

« Perché ci vuole esperienza, mon cher. Non pensare che la mia rinomata capacità in camera da letto sia la mia unica dote. »

John rise a bassa voce.

« Strano, pensavo che di quella avessi imparato tutto grazie ai corsi accelerati di Thomas e Alex. »



Lafayette si voltò di scatto, guardandolo con aria platealmente offesa.

« Ritira subito quello che hai detto. »

John allargò un sorrisino, per poi fargli una linguaccia decisamente non richiesta e poco elegante. Stupidi americani.
Lafayette lo guardò assottigliando gli occhi, pronto a vendicarsi rovesciandogli in testa tutta la busta di terra che stava usando per riempire i vasi. C'erano ancora un paio di kili di terriccio dentro, magari bastava per innaffiargli tutta la testa...

« Guarda che ti licenzio. Anzi, peggio, ti faccio riordinare gli ordini di rose tutti. I. Giorni. »

La voce minacciosa di Lafayette sembrava anche tremendamente seria, e John decise che non aveva alcuna intenzione di scoprire se diceva davvero oppure no. Conoscendo il francese, la risposta era fin troppo ovvia.

« Okay! Okay! Mi arrendo! Sono sicuro che tu sia molto più bravo a letto di quei due messi insieme! »

Ritrattò subito l'americano, alzando le mani in segno di resa. Lafayette sembrò pensarci su qualche secondo, cercando di capire quanto sincere fossero le sue scuse. Forse, per una volta, poteva anche perdonarlo.

« Questo, amico mio, è estremamente vero. Ma visto che sei tu, potrei insegnarti qualcosa una volta o l'altra. »

L'occhiolino di Lafayette fu il colpo finale. Uno a zero per il francese. Palla al centro. John arrossì violentemente e gli tirò dietro il paio di guanti. che aveva ancora in mano.
Lafayette rise, trionfante, per poi tornare alle sue piante. Le guardava da vicino, esaminando ogni foglia e cercando di posizionarle nel posto migliore. Aveva cambiato le decorazioni della prima pianta tre volte nel giro di due minuti, e John cominciava a chiedersi se stesse cominciando a dimostrare sintomi di una possibile schizofrenia non diagnosticata.

« Uh... Laf? Hai già rigirato quelle due povere piante almeno cinquanta volte l'una. Cos'è che non ti convince? »

« Non lo so. Sono belle. »

John dovette sforzarsi parecchio per non roteare gli occhi.

« Se sono belle, allora perché continui a cambiare le cose?! »

Lafayette si girò di scatto verso di lui, guardandolo serissimo.

« Ho ordinato queste piantine apposta per George e Herc. Una è più profumata fa fiori piccolini, così rallegrerà lo studio di Herc mentre disegna senza dargli troppo fastidio per le luci e simili. »

« Laf, le piante non danno fastidio ai colori dei disegni... »

Lo interruppe John. Lafayette agitò appena la mano, ignorando totalmente le sue parole per continuare la sua spiegazione.

« La seconda ha dei fiori un po' più grossi e colorati ma è meno profumata, così non darà fastidio a George in ufficio ma glielo colorerà un po'. »

John avrebbe voluto fargli notare che allora tutta la storia precedente sul fatto di prendere piante e non fiori non aveva molto senso, visto che aveva scelto sempre in relazione a quelli, ma era abbastanza sicuro che non fosse quello che era il momento di dire. Invece, allargò un sorriso tranquillo. Lafayette si sforzava sempre tantissimo per fare regali a quelle che definiva le due persone più importanti della sua vita dopo il fratello gemello Thomas, e contando quanto il francese si divertiva sempre a riempire di regali le persone, soprattutto se si trattava dei pensieri floreali che tanto amava, immaginava che fosse normale vederlo così indaffarato per rendere un regalo perfetto. Alexander gli aveva accennato, un paio di volte, che l'ufficio di Washington a lavoro era sempre parecchio grigio e formale, ma poi era arrivato Lafayette e aveva cominciato a riempirlo di fiori ovunque. Per quanto riguardava Hercules, invece, portava sempre piccoli fiorellini appuntati al petto o tra i capelli, regalini che probabilmente il francese gli faceva avere durante la giornata.

« È una cosa molto dolce. Sono sicuro che saranno contentissimi. Ma... Se continui a cambiare le cose, non saranno mai pronti. »

« Lo sooooo! »

Si lamentò Lafayette, sbuffando pesantemente. Guardò ancora le piante per qualche secondo con aria pensosa, e poi, dal nulla, fecce un piccolo saltino sul posto. John si prese uno spavento e rischiò di schiantarsi contro il mobile e far cadere qualcosa.

« Ma certo! John, sarai tu a decorarli. »

John strabuzzò gli occhi.

« .... Io? Cosa?!»

Lafayette annuì, convinto.

« Sì. Tu. Forza, mettiti al lavoro, non c'è molto tempo. »

Senza aggiungere altro, Lafayette mollò il sacco di terra a John e si tolse il grembiule da lavoro, tornando a passo tranquillo verso la parte di fronte del loro amato negozio di fiori.
John rimase a guardare la porta chiudersi, sbattendo un poco gli occhi, incredulo. Sospirò, per poi scuotere piano la testa e guardare con aria critica le due piante che aveva davanti. Era bello che Lafayette si fidasse così tanto di lui, ma come diavolo doveva fare?! Era poco che lavorava con lui, solo qualche mese. Aveva lavorato per anni come barista, ma poi aveva avuto problemi con alcuni colleghi, e Lafayette l'aveva preso nel suo piccolo ma ben avviato negozio. Gli era molto grato, ovviamente, ma come diavolo poteva fare a creare cose belle ed eleganti come quelle del francese?! Lafayette era un mago dell'estetica, lo era sempre stato.

John, però, non voleva essere da meno. Prese un bel respiro, per poi posare la terra di lato e concentrarsi sulla prima pianta. Se Laf voleva un bel lavoro fatto da lui, così sarebbe stato. In fondo, difficilmente il francese si sbagliava sul conto di qualcuno.
E poi, a John piacevano i fiori. Ma soprattutto, John Laurens non si sarebbe mai tirato indietro da una sfida.
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Fandom: Les Miserables
Rating: Safe
Wordcount: 600
Iniziativa: CowT 9

Grantaire era sicuro che avrebbe dovuto abituarcisi, prima o poi. Avrebbe dovuto abituarsi a vedere Enjolras saltare sul tavolo e cominciare uno dei suoi famosi monologhi. Alle risate basse delle persone che lo circondavano, che venivano puntualmente ignorate dal ragazzo. Enjolras era una forza della natura che nessuno poteva fermare, ormai tutti nel quartiere conoscevano la sua giacca rossa, tutti sapevano che quando la sua voce tuonava in uno dei locali di zona non c'era modo per fermarlo finché non fosse riuscito a convincere tutte le persone presenti. E la cosa peggiore, era che ci riusciva sempre. Le persone ridevano di lui, poi si fermavano ad ascoltarlo, e ben presto il ragazzo le aveva conquistate con la sua passione e la forza dei suoi ideali.

Grantaire aveva visto quella stessa scena innumerevoli volte. Eppure, ancora non riusciva a crederci. Ogni volta che Enjolras cominciava a parlare, era il primo a cadere ai suoi piedi e pendere dalle sue labbra. Aveva sentito mille volte quelle stesse frasi, ma il fuoco nei suoi occhi era qualcosa a cui non ci si poteva abituare.
Grantaire avrebbe dovuto. Ma in fondo, non era di certo nel suo curriculum essere la persona che fa ciò che ci si aspetta. Deludere le aspettative altrui era il suo secondo lavoro (il primo, in compenso, l'aveva perso da tempo ormai).

Anche quel giorno, Enjolras aveva iniziato uno dei suoi discorsi. Un sorriso increspava le sue labbra mentre parlava di come sarebbero insorti, di come avrebbero combattuto per la libertà. I suoi occhi erano puntati davanti a sé, ma sembravano proiettati in un tempo e un luogo diverso, direttamente sul campo dove avrebbero combattuto per i loro ideali.
E Grantaire, Grantaire era perso in un altro mondo insieme a lui. Un tempo quei discorsi non gli appartenevano, ancora adesso non era sicuro di capirli appieno. Non vedeva le scene chiare e nitide nella sua mente come faceva Enjolras. Ciò che vedeva, però, era rosso. Il rosso che era passione ed era violenza ed era sangue ma era anche libertà. Il rosso che ormai venerava come una divinità. Enjolras era un'onda rossa che inondava tutto, e in quei momenti Grantaire non poteva fare altro che credere fermamente in ogni sua parola, ogni sillaba che lasciasse le sue labbra.

Ogni tanto, pensava a Marius e al modo in cui lui paragonava il rosso al desiderio che sentiva per Cosette. Grantaire non poteva dargli torto. Anche per lui, il rosso era desiderio, volontà di avere ciò che era davanti a lui, così vicino eppure così lontano.
Guardava Enjolras parlare, ed ogni tanto abbandonava le immagini così nitide dei sogni del giovane per fare un passo indietro e guardarlo, ammirarlo nella sua forza e nel suo orgoglio. Enjolras era bello, era splendente. Era affascinante. Grantaire guardava le sue labbra muoversi mentre parlava, guardava le sue braccia agitarsi. La forza che trasmetteva era così tanta, e Grantaire aveva immaginato fin troppo volte come Enjolras avrebbe potuto mettere a frutto quella forza in modi molto più interessanti per entrambi, ma non avrebbe mai potuto parlarne con lui.
Quella missione, quella sua passione per la libertà, era più importante dei suoi stupidi desideri. E poi, cosa avrebbe potuto avere da spartire uno come Enjolras?

In fondo, comunque, non gli importava. Il desiderio, la passione, o i grandi ideali. Erano tutte cose che sbiadivano, davanti alla semplice verità. Grantaire guardava quel ragazzo istigare le folle, e sapeva che avrebbe dato la vita per lui. Non per la libertà, non per i desideri romantici di Marius. Solo per lui. L'unico motivo per cui amava così tanto il rosso, era perché lo ama Enjolras. Così come Grantaire amava lui.
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 1427
Iniziativa: CowT 9

Star Platinum. Jotaro aveva sempre saputo il suo nome, fin da quando lo stand era comparso la prima volta. Nel profondo del cuore, conosceva la sua identità e conosceva la sua provenienza. Ma all'inizio era stato difficile ammetterlo. Era spaventato, ed era confuso, e come ogni volta reagiva allontanando o picchiando tutto ciò che lo metteva a disagio. A pensarci anni dopo, doveva essere sembrato davvero uno stupido.

Ricordava ancora quando il vecchio era andato a trovarlo e aveva portato con sé Abdul. Ricordava le loro spiegazioni. Ricordava le parole di Abdul sul fatto che il suo stand fosse legato all'arcano della Stella. All'epoca, Jotaro non sapeva cosa significasse, né aveva cercato di informarsi. Durante tutto il loro viaggio verso l'Egitto aveva semplicemente cercato di usare Star Platinum come un oggetto, una protesi che aumentava la forza e la velocità del suo corpo. Niente di più.
Ma Star Platinum non era solo. Star Platinum era parte di lui, una delle parti più profonde, una di quelle che avrebbe voluto ignorare, ma che doveva invece guardare in volto, e abbracciare, e accettare.

Era stato difficile. Ricordava bene quanto tempo era passato, prima di riuscirci. Una volta finito il periodo di crisi della battaglia contro DIO in cui avevano dovuto per forza collaborare per non morire, il loro rapporto si era deteriorato. Star Platinum cercava di avvicinarsi a suo modo, che era poi il modo che avrebbe usato anche Jotaro, e Jotaro invece spingeva lontano tutti, nessuno escluso. Era ancora ferito, ancora scottato da ciò che era successo. La rabbia era la sua compagna, ed era difficile riuscire a liberarsene.

Ricordava ancora come la sua rabbia l'aveva isolato da tutti, facendolo concentrare solo ed esclusivamente sulla scuola. Per anni non aveva fatto altro, aveva persino deciso di andare all'università, nella continua ricerca di qualcosa da fare, qualcosa che non lo facesse sentire perennemente impotente.
Ricordava anche il modo in cui cercava sempre di cacciare Star nelle profondità del proprio essere, cercava di tenerlo così lontano da dimenticarsi la sua esistenza, annaspando sempre id più alla ricerca di ogni appiglio a quella normalità che desiderava così tanto.


Poi, un giorno, aveva deciso di mettere da parte le differenze, provare a cercare un contatto. Aveva fatto uscire Star e aveva teso la mano, cercando di toccare le sue dita. Star l'aveva guardato in silenzio, aveva teso la mano verso di lui. Sentiva il tocco di Star sulle dita, eppure la sua mano passava attraverso il suo corpo, come farebbe con un ologramma. Ma a Jotaro non importava. Riusciva a percepire la sua mano, percepiva tutto il suo corpo e la sua essenza. Percepiva la sua esistenza, concreta e viva e presene come non era mai stata prima di quel momento. Star non si muoveva, piegava e distendeva le dita in movimenti lenti, simili a quelli che compiva Jotaro. Era come guardarsi allo specchio e vedere la propria anima lì, in piedi di fianco a sé. Jotaro aveva negato quella sensazione per anni, ma la semplicità di ciò che li univa era così trasparente, così onesta, che era impossibile da ignorare.

Era stato come un battesimo. Come un risveglio in una nuova vita. Non perché Jotaro fosse cambiato, ma perché aveva finalmente guardato in faccia se stesso. Sul volto di Star Platinum vedeva lo stesso dolore che sentiva lui. Vedeva la paura, vedeva la rabbia. Vedeva il senso di colpa. Vedeva tutte quelle emozioni che lui cercava di soffocare ogni giorno, nitide e vive davanti a lui. Aveva cercato di scappare per molto tempo, ma era così ovvio e semplice da capire, che non avrebbe potuto continuare ancora a lungo. Non poteva scappare da se stesso. Poteva odiarsi, poteva arrabbiarsi, poteva odiarsi, ma non poteva scappare.
E guardando Star Platinum nei suoi occhi così profondi, per un solo secondo, Jotaro pensò finalmente che forse, solo forse, avrebbe potuto imparare ad amare quella parte così profonda e complicata di sé.

Quella sera era stata la prima volta in cui aveva provato a cercare su qualche vecchio libro il significato della Stella nei tarocchi. Avevano combattuto contro stand che rappresentavano gli arcani per metà del loro viaggio ai tempi dell'Egitto, ma non si era mai interessato realmente al loro significato. Abdul era l'esperto, e lui non aveva bisogno di sapere da cosa derivassero i loro stand per poterli picchiare meglio.
Ora, invece, voleva saperne di più. Certo, era facile capire perché il destino avesse scelto per lui la stella, ma era sicuro ci fosse qualcos'altro. Aprì il libro che aveva trovato, scorrendo lentamente lungo le pagine alla ricerca di quella giusta. Star Platinum guardava da sopra di lui, curiosando le pagine insieme a lui e borbottando ogni volta che Jotaro non trovava quella giusta. Quando finalmente la trovò, Jotaro si piegò appena sul libro per leggere meglio, assorto.

A quanto pareva, Jotaro doveva essere una persona risoluta e piena di speranze, secondo la sua carta. La cosa all'inizio gli era parsa parecchio ironica, visto tutto ciò che aveva passato. Ma anche se non si riconosceva in quelle descrizioni, si sentiva più vicino a se stesso e a Star Platinum, riusciva a capire meglio il suo posto nel mondo e il significato di ciò che era stato il suo destino.

Era cresciuto molto, da allora. Non aveva più usato i poteri di Star Platinum se non in rarissime occasioni, e non aveva mai più usato la sua abilità di fermare il tempo, non avendone alcun bisogno, ma nonostante ciò passava molto più tempo a contatto con il proprio stand. Aveva imparato ad accoglierlo, comunicare con lui, scambiare idee. Rileggeva ad alta voce i suoi articoli accademici per poi cercare la conferma di Star riguardo alla forma. Riguardava insieme a lui le foto dei suoi avvistamenti per cercare di capire se aveva davvero visto bene. Forse non sarebbe mai riuscito ad entrare in risonanza con lui in quel modo naturale e perfettamente coordinato che aveva visto in Kakyoin o Polnareff, ma non gli importava. Avevano trovato il loro linguaggio, il loro modo di comprendersi e supportarsi a vicenda, e quello bastava.

Proprio quel giorno, Jotaro aveva ricevuto segnali preoccupanti dal trasmettitore che aveva lasciato a Jolyne. Sembrava che sua figlia fosse in pericolo. Si era attivato immediatamente per contattare la fondazione Speedwagon e capire cosa stesse succedendo, e subito erano riusciti ad aggiornarlo sulla vita di sua figlia. A quanto pareva era stata arrestata per un crimine che non aveva commesso, incastrata da poteri più grandi di lei che cercavano di vendicarsi sulla ragazza per arrivare a Jotaro.
Mentre preparava le valigie per partire, Jotaro voltò la testa verso Star Platinum. Lo stand, che era uscito senza che lui se ne accorgesse, stava camminando avanti e indietro per la stanza, con l'aria di chi ha tutta la voglia di mettere le mani addosso a qualcuno. Jotaro lo capiva perfettamente, in fondo era esattamente il modo in cui si sentiva lui. Qualcuno aveva intenzione di minacciare la vita di sua figlia nel tentativo di arrivare a lui, qualcuno aveva pensato fosse una buona idea mettere in mezzo una persona che non c'entrava nulla in una battaglia che non doveva riguardarle.
Jotaro avrebbe trovato quel qualcuno, e gli avrebbe fatto pentire di essere nato. Gli avrebbe messo davanti ogni singolo errore commesso nella sua vita e lo avrebbe fatto piangere in ginocchio, pregando e invocando la sua pietà. Quella che Jotaro non avrebbe avuto, come non l'aveva mai avuta prima.

Si voltò a guardare Star Platinum, che si stava aggiustando i guanti che gli avvolgevano le mani. Jotaro aveva preso da poco un nuovo completo, decidendo di cambiare dagli abiti bianchi che indossava di solito, e Star aveva immediatamente aggiustato il proprio look al suo. Sembrava piacergli, l'idea di avere un aspetto simile. Se bastava così poco per renderlo felice, Jotaro era ben contento di assecondarlo.

"Sarà ora di andare, Star. È da un po' che non meniamo le mani, uh?"

Chiese distrattamente, mentre appoggiava tutto ciò che gli serviva vicino alla porta, pronto ad uscire. Non parlava quasi mai ad alta voce con lui davanti a terzi, per ovvi motivi, ma comunicare quando erano da soli era una cosa che gli faceva piacere ogni tanto.
Star Platinum allargò un sorrisetto che probabilmente sarebbe risultato inquietante a... Quasi tutti. Jotaro, invece, era contento di sapere che lo stand condivideva le sue stesse emozioni.
Allungò una mano, e Star la prese con le sue dita eteree, per poi risalire lungo il suo braccio e rientrare nel suo corpo. Jotaro sorrise. Era bello non essere mai da soli.

"Andiamo, allora."
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: NSFW
Wordcount: 1660
Iniziativa: CowT 9

Vita e morte, inizio e fine, Il Mondo è la carta che rappresenta l'unità circolare delle cose, l'essenza stessa della realtà che unisce tutto.
Dio non poteva che essere soddisfatto dallo stand che aveva ricevuto una volta svegliatosi dal suo lungo sonno. The World era lo stand definitivo, con il potere di stringere tra le mani il tempo stesso e controllarlo a proprio piacere. Era la risorsa migliore che avrebbe mai potuto aspettarsi. Per tanti anni aveva cercato il potere, quello puro e reale, ciò che lo avrebbe elevato oltre l'umanità stessa, e finalmente ci era riuscito.

Dio si leccò le labbra, la lingua sottile che ne disegnava lentamente il contorno sottile e perfettamente disegnato, mentre i suoi occhi rimanevano fermi sul proprio stand, silenziosamente in piedi davanti a lui. The World era sempre estremamente silenzioso, ma Dio sapeva quanto attentamente osservasse tutto ciò che lo circondava. Ed ora, voleva la sua più totale attenzione. Doveva essere lui, ciò che guardava.

Gli occhi dello stand rimanevano fissi sul corpo nudo del suo user, così come Dio gli imponeva. Non che The World si ribellasse, in fondo. Nessuno poteva ribellarsi a lui, men che meno il proprio stesso stand.
Dio allargò un lieve sorriso soddisfatto, per poi Inclinare appena la testa di lato, gli occhi fissi su The World. Passò un dito sulle proprie labbra, seguendo lentamente il contorno con la punta del ito, per poi scivolare più in basso, lungo il mento, e ancora più giù fino a toccare con le dita la cicatrice che lo univa al corpo di Jonathan Joestar. Oh, per quanto aveva desiderato quel corpo. Quanto aveva desiderato di stringerlo e violarlo, strappare via quell'aria di purezza e santità, macchiandola e distruggendola con le proprie mani. Ed ora poteva fare esattamente ciò che aveva sempre voluto.
Allargò un sorrisetto, mentre lentamente inclinava la testa all'indietro, scoprendo il collo lungo. Le dita scivolarono lentamente sulla cicatrice, solleticandola gentilmente, prima di scendere ancora, stuzzicando la pelle del petto con movimenti concentrici. Dio sospirò, e sollevò di nuovo la testa per guardare The World, che lo stava osservando con attenzione.

"Sai The World, ci sono tante cose che devo ancora insegnarti. Abbiamo così tanto da imparare l'uno dell'altro..."

Soffiò, il sorriso che continuava a piegare le sue labbra. Le dita si spostarono fino a stringere uno dei suoi capezzoli, tirandolo piano, e Dio si inarcò appena lasciando un sospiro soddisfatto. L'idea di poter manovrare come voleva quel corpo era la cosa più eccitante cui potesse pensare. E il proprio stand, immobile davanti a lui che lo guardava, testimone di quella inevitabile unione... Tutto era semplicemente perfetto.

Entrambe le mani di Dio si spostarono sui propri capezzoli, le dita che li stringevano e torturavano con movimenti gentili e calcolati, strappandogli delicati sospiri. Era ancora difficile capire cosa potesse piacere di più a quel corpo che era così nuovo, ma era sicuro si sarebbe abituato in fretta. Gli occhi di The World erano puntati su di lui, e Dio riusciva a vedere nel suo corpo l'eccitazione che saliva, specchio di quella che lentamente stava cominciando a scorrere nel suo. Sorrise appena, e con una mano scivolò più in basso, le dita che disegnavano lentamente il contorno degli addominali e dell'ombelico, esplorando ogni curva di quella pelle che ora era solo sua.
Lentamente, elegantemente, Dio aprì le gambe nude davanti al proprio stand, scoprendosi a lui, rivelando il proprio membro già rigido che tremava appena, ogni volta che le dita stuzzicavano la sua pelle. Era passato così tanto tempo, da quando Dio aveva potuto fare qualcosa di simile. Tanti anni addormentato in fondo ad un oceano, tanti anni in cui il suo corpo non aveva potuto ricevere alcun tipo di soddisfazione. Doveva recuperare così tanto.

La sua mano scese a stringere il proprio membro, le dita grosse che si avvolgevano intorno alla sua lunghezza, i polpastrelli che premevano sulla pelle seguendo il percorso delle vene, alla ricerca dei punti più sensibili. Dio lasciò di nuovo andare la testa all'indietro, i capelli biondi che scivolavano sul cuscino sotto di lui, disordinati. Strinse meglio la presa, cominciando a toccarlo lentamente, lasciando che il piacere di quei gentili, lenti stimoli salisse lentamente lungo il suo corpo, facendo tremare un muscolo per volta. Era come scoprirsi di nuovo, conoscere quel nuovo corpo che era sempre stato suo ma che non aveva mai potuto stringere a sé.
Un cenno mentale, e The World si fece avanti, camminando con lentezza, l'espressione austera che lo contraddistingueva sempre stampata sul volto. Dio spostò lentamente la mano dal proprio petto, portandola dietro la testa per mettersi più comodo, mentre guardava il suo stando chinarsi su di lui.

Era una sensazione unica. Gli impulsi sensoriali che arrivavano da lui e da The World comunicavano e si intrecciavano tra loro, creando un'esperienza che Dio non avrebbe potuto in alcun modo descrivere. Lo stand si piegò su di lui e attaccò uno dei suoi capezzoli con le labbra ruvide, stringendolo e succhiandolo con forza, le mani possenti che artigliavano i suoi fianchi per tenerlo fermo. Dio lasciò un sospiro alto, inarcandosi verso il proprio stand, il petto che strofinava contro quello dell'altro. La sua mano si strinse meglio sul proprio membro, strappando un gemito basso ad entrambi mentre The World stringeva il suo capezzolo tra i denti, tirandolo con decisione. Le mani dello stand scesero con tocchi pesanti lungo il suo corpo, fino ad avvolgere con l'intero palmo di entrambe le mani intorno alle natiche di Dio, tirandolo meglio verso di sé. Il vampiro lasciò un ringhio basso, la mano libera che andava ad aggrapparsi alle spalle di The World per tenersi sollevato.

"Come siamo impazienti... Non posso darti torto, però. Questo corpo è così eccitante, vero?"

Miagolò Dio all'orecchio del proprio stand. The World ansimò pesante, uno specchio del respiro spezzato di Dio. Inclinò la testa di lato per affondare contro il collo del suo user e mordere con decisione la sua pelle. Dio buttò la testa all'indietro con un gemito strozzato, scoprendo totalmente il collo per lasciargli ogni spazio di manovra. Il corpo di The World, grosso e possente, era un'esatta copia di quel corpo che aveva strappato al suo originale proprietario, e finalmente, dopo tanti anni, Dio poteva sentire cosa si provava a venire bloccato su un letto da quella massa di muscoli come aveva sempre desiderato. The World lo spinse bene contro il materasso morbido, le mani ancora artigliate alle sue natiche, i denti che graffiavano con foga la pelle del suo collo. Ogni ferita si rimarginava immediatamente, lasciando dietro di sé solo una piccola goccia di sangue, prontamente raccolta dalla lingua calda di The World.
Era tutto ciò che Dio aveva sempre desiderato, e anche qualcosa in più. Poteva comandare a The World tutto ciò che voleva, e lo stand lo avrebbe accontentato con ogni suo respiro. Quel potere, quell'assoluto dominio su qualcuno era ciò che lo faceva eccitare così tanto, anche quando si trattava di un'emanazione di se stesso.

"Prendimi, The World."

Ordinò al suo orecchio, e The World, il suo servo più fedele e affidabile, non se lo fece ripetere due volte. Lasciò andare le sue natiche per farlo di nuovo poggiare sul letto, e spostò le mani sulle sue cosce, aprendole con un gesto secco, per potersi posizionare meglio contro di lui. Il membro pulsante dello stand, così simile a quello di Dio, si poggiò contro il ventre del vampiro, che allungò una mano per stringerlo con delicatezza, stuzzicandolo. La scossa di piacere riverberò da The World a lui nello stesso istante, strappando un gemito basso ad entrambi. Dio sentiva l'impazienza di entrambi incrociarsi e intrecciarsi, e non perse altro tempo. Si sollevò quel che bastava e spostò il membro di The World per poggiare la punta contro il proprio ingresso. Non gli interessavano olii, o preparazione. Era un vampiro, avrebbe resistito a qualsiasi cosa, e ciò che voleva davvero era sentire, sentire ogni centimetro di quel membro che aveva desiderato così a lungo aprirlo e farsi strada in lui, allargandolo centimetro dopo centimetro.
Appena The World si trovò in posizione, lo stand si spinse dentro di lui, la punta che si faceva strada nel suo condotto con lentezza ma senza mai fermarsi. Dio chiuse gli occhi, un gemito alto che faceva tremare la sua gola, mentre sentiva il suo intero corpo aprirsi intorno a al membro del suo stand. Quando lentamente The World riuscì ad entrare fino in fondo, non diede un secondo a Dio per abituarsi. Cominciò a muoversi in lui con forza, le spinte profonde e veloci che allargavano sempre id più il condotto. Ogni movimento lanciava ondate di piacere miste a scosse di dolore nel corpo del vampiro, che bloccavano ogni suo pensiero. Dio si lasciò totalmente andare, le mani che artigliavano la schiena di The World così forte da provocare graffi profondi sulla propria. Essere bloccati sotto quel corpo, piegati al suo totale volere e sapere allo stesso tempo che quella enorme, eccitante creatura avrebbe fatto ogni singola cosa Dio avesse voluto era la sensazione più inebriante che il vampiro avesse mai provato nella sua lunga vita.

The World continuò a muoversi con forza, senza rallentare e senza tirarsi indietro, finché l'orgasmo di Dio non colpì entrambi così forte da farli urlare, i denti di Dio che affondavano nel collo di The World, aprendo ferite profonde sul proprio, mentre la mano dello stand si muoveva ancora con forza sul suo membro, che doveva aver afferrato ad un certo punto senza che Dio se ne accorgesse consapevolmente.
Dio si lasciò cadere sul materasso, mentre The World rientrava in lui senza aggiungere altro. Il vampiro chiuse gli occhi, rimanendo fermo per qualche minuto, nel tentativo di riprendere fiato. Oh, gli piaceva parecchio questa novità degli stand. The World era l'alleato migliore che avrebbe mai potuto desiderare. Insieme, loro due avrebbero governato ogni cosa esattamente come era loro diritto.
E ancora una volta, Dio non avrebbe avuto bisogno di nient'altro che di se stesso.
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 Fandom: Hamilton
Rating: Safe
Wordcount: 506
Iniziativa: CowT 9

Le sedie erano pronte. Tutto l'ufficio era riunito. L'ora si stava avvicinando, e Thomas non poteva essere più soddisfatto. Finalmente, dopo anni di ricerche e pianificazioni, era riuscito a organizzare la gara dei sogni: tre scontri testa a testa, eliminatoria diretta, e chi arriva vivo alla fine vince la gloria e segnerà il proprio ingresso nella memoria di tutto l'ufficio.

Certo, aveva dovuto allearsi con Alexander Hamilton, il suo peggior nemico, la persona che più detestava sulla faccia della terra, ma era un piccolo prezzo da pagare per la gloria.

"Allora, pronti?"

Chiese James, con aria profondamente preoccupata. Era sempre stato ansioso, ma da quando avevano cominciato a organizzare la mirabolante competizione la cosa era ancora peggiorata. Thomas cerco di ignorare il suo sguardo carico di preoccupazione, e fece sistemare i due stagisti a cui avevano deciso di far fare le prove generali sulle due sedie. I ragazzini si sistemarono, con aria appena preoccupata, ma determinati a fare una bella figura davanti ai superiori.
Thomas sporse due estintori verso di loro, e ognuno ne prese uno, rigirandolo tra le mani.

"Ora è tutto pronto. James, dai pure il via."

James si asciugò il sudore col fazzoletto, per poi iniziare il conto alla rovescia, la voce flebile e tremante.

"Uno... due... tre.... via!"

Il rumore sibilante degli estintori che partivano riempì tutto l'ufficio, seguito dalle voci di incoraggiamento di tutti i colleghi. La gara era entusiasmante, soprattutto perché i due malcapitato continuavano a rischiare di cadere miseramente, le sedie che cigolavano pericolosamente sotto di loro.

Pochi secondi, e uno dei due scivolò per terra, rotolando rovinosamente oltre la linea d'arrivo. Gli altri colleghi esultarono e applaudirono il vincitore, che si alzò in piedi trionfante. Era solo una batteria di prova, ma Thomas lo lasciò crogiolarsi nella sua soddisfazione, in fondo se lo meritava.

La festa di interrotta dal rumore secco della porta che si apriva, Alexander Hamilton si buttò dentro ansimando.

"Via tutto! Via tutto! Il boss sta arrivando!"

Urlò allarmato. Tutti si mossero veloci e preparati, proprio come Thomas li aveva addestrati. Nascosero gli estintori, pulirono in un attimo la scia di schiuma, riordinarono le sedie, e tutti al loro posto prima ancora che il grande capo entrasse dalla porta. entrò in ufficio con aria tranquilla, fischiettando a bassa voce. Era una mattinata estremamente piacevole, il cielo era terso e la temperatura tiepida. La primavera evidentemente si stava avvicinando, e lui non vedeva l'ora di poter fare una settimana di piacevole vacanza a Mount Vernon, nascondendosi e rilassandosi sotto le fronde dei suoi amati alberi.
Si guardò intorno, sorridendo allegro nel vedere tutti i suoi sottoposti già alle loro postazioni, che lavoravano tutti concentrati.
Era un enorme piacere, sapere di poter sempre contare su di loro. Non era come altri posti di lavoro, dove i dipendenti cercavano sempre di fare qualcosa alle spalle del capo, loro collaboravano sempre in tutto.
Thomas Jefferson allargò un sorriso nel vederlo, e lo salutò con un gesto entusiasta della mano, che George ricambiò con piacere.
Che bel posto di lavoro.
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 Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9

Era una cosa terribile, un lavoro sporco e che li avrebbe segnati per sempre ma qualcuno doveva pur farlo.
Rohan strinse i pugni, lo sguardo concentrato e attento a tutto ciò che gli succedeva intorno. Erano arrivati in finale grazie alle sue abilità e ora dovevano solo vincere un'altra partita.
Era stata dura, arrivarci. Aveva dovuto rinunciare alla sua moralità, scendere a compromessi col mondo, accettare qualcosa che non avrebbe mai pensato di accettare, se solo gliel'avessero chiesto qualche giorno prima: stare in squadra con Josuke Higashikata.

Il mondo era ingiusto, il destino aveva sorteggiato le squadre e lui si era ritrovato quello schifoso buzzurro tra i piedi, ma non poteva farci molto. Aveva dovuto lavorare con ciò che aveva, e farsi bastare le sue doti piuttosto discutibili.
Era stato difficile scalare quella enorme montagna, avevano dovuto sudare e soffrire (soprattutto lui, contando con chi si trovava in squadra) ma alla fine erano arrivati lì, e la vetta era vicina.
Rohan prese la palla tra le mani, toccando delicatamente la superficie con le dita. Ce la potevano fare. Dopo tutto ciò che avevano passato, dopo gli insulti di Hermes e Jolyne, il modo per niente legale di giocare di Dio e Diego, le mille palle perse e i mille rinvii per mangiare di Mista e Giorno. Dopo tutta quella fatica, finalmente avrebbe avuto il suo momento di gloria. E finalmente, lavorare con il suo acerrimo nemico sarebbe servito a qualcosa.

Josuke si avvicinò a lui, guardandolo con un sopracciglio alzato.

"Sei sicuro di saper servire? L'ho sempre fatto io."

Fece notare. Rohan ne aveva già abbastanza delle sue lamentele.

"Certo che so servire. Cosa credi?! Ho lasciato fare a te solo perché serviva che io fossi già pronto in posizione, ma sono perfettamente in grado di farlo. E visto che è l'ultima partita, voglio provare."

La verità era che Rohan non aveva mai imparato a servire di schiacciata, a scuola l'unica volta che ci aveva provato aveva tirato la palla dritta in faccia al professore di ginnastica. Ma non importava, quello sarebbe stato il suo momento di gloria e nessuno gliel'avrebbe tolto, a costo di usare Heaven's Door per indirizzare meglio la palla.

Presto, comunque, avrebbe avuto la sua vittoria. Dovevano battere solo più una coppia, quella formata da Anasui e Okuyasu (non aveva idea di come fossero arrivati fin lì, Anasui sembrava perennemente disgustato dalla vicinanza dell'altro, e Rohan lo capiva perfettamente). Certo, anche loro erano stati parecchio bravi ad arrivare fin lì, ma Rohan aveva la passione e l'impegno dalla sua, come nei migliori spokon.
Prese la palla in mano, e chiuse gli occhi qualche secondo, poi si preparò.

"Heeeey attenzione!"

Un aeroplanino volò verso di loro,
e passò sfrecciando, tagliando da parte a parte la rete.

"Scusateeee."

Urlò Narancia, correndo. Rohan guardò la rete cadere ai due lati, sgranando gli occhi un paio di volte. Josuke sbuffò.

"Che palle, niente finale."

Rohan rimase in silenzio, per poi abbassare la palla, sconfitto. Sono tutte menzogne, quelle degli spokon.

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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9


Il sole batteva insistente, e Yoshikage già non ne poteva più. Pur essendo ben nascosto sotto il suo ombrellone, era impossibile riuscire a pararsi da tutti quei raggi, e la sua pelle chiara stava già cominciando a lamentarsi. Si era messo almeno 4 strati di crema protettiva, sembrava più una sogliola coperta di farina che un essere umano, ma non bastava minimamente. dannata estate, dannate spiagge, e soprattuto, dannata Killer Queen.
 
Il problema fondamentale, infatti, era che lo stand si era pesantemente appisolato di fianco a lui, la testa buttata sulla sua spalla, e il respiro che somigliava molto più ad una continua litania di fusa. Aveva entrambe le braccia abbarbicate intorno alle spalle di Yoshikage, e l'uomo non riusciva neanche più a muoversi decentemente. Ogni volta che provava a spostarsi anche solo di un millimetro lo stand soffiava piano, per poi tornare a fare le fuse tranquilla appena ritornava in posizione.
 
Morale della favola, Yoshikage era bloccato sotto l'ombrellone, senza poter rientrare in stanza e senza poter neanche coprirsi con un maglietta, pieno di crema ovunque, con un enorme gatto rosa abbarbicato addosso. 
Cercò di pensare profondamente a tutta la vita che aveva vissuto fino a quel momento, cercando di capire esattamente quali mirabolanti eventi l'avessero portato a quella terribilmente disdicevole situazione. Era il karma? Una sorta di legge universale che cercava di punirlo per ciò che aveva fatto? Un modo per fargli capire che doveva cambiare stile di vita? Non era bastato venire picchiato ripetutamente da tutta la squadra di Higashikata per mesi e mesi? O a maggior ragione, non bastava sopportare il fatto di averli intorno tutti i giorni perché abitavano nella sua amata città?
 
A quanto pareva, no. Yoshikage sbuffò appena, tentando di concentrarsi sulla lettura del libro che aveva davanti. Ormai non ricordava neanche più di cosa parlasse, ogni volta finiva per rileggere la stessa frase senza riuscire a capirne il senso, il fastidio della pelle che bruciava lo distraeva da qualsiasi altra cosa. 
 
Ad un certo punto, dal nulla, il sole si oscurò come nascosto dal mille nuvole. Yoshikage alzò la testa al cielo, e trovò effettivamente una piccola nuvola grigia sopra di sé, che copriva il sole impedendogli di passare. Era strano però, perché tutto intorno il cielo era terso e azzurro quanto prima. Yoshikage si guardò attorno, confuso, per poi notare un ragazzo con uno strano cappello in testa che lo guardava tranquillo.
Era uno degli amici della figlia di Jotaro, forse...? O qualcosa di simile. Yoshikage non sapeva come si chiamasse.
 
"Uh... Grazie?"
 
Il ragazzo sorrise appena appena.
 
"Sembrava stessi per bruciarti. Ma quel gattone è troppo bello per farlo muovere, così ho deciso di aiutarti."
 
Sussurrò, guardandolo. Yoshikage sbatté gli occhi un paio di volte, poi accennò un sorriso.
 
"Sei gentile. Vuoi... Leggere con me?"
 
Provò a proporre, non sapendo che altro dire. Il ragazzo si sedette accanto a lui e poggiò la testa sull'altra spalla, mettendosi a leggere silenziosamente scrollando la testa.
Yoshikage rise piano. Che pomeriggio quantomeno strambo.

Compromise

Mar. 23rd, 2019 01:26 pm
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Fandom: Hamilton
Rating: Safe
Wordcount: 500
Warning: Circus!AU
Iniziative: CowT 9

Ad Alexander non piaceva il circo. Lo trovava stupido e volgare, pieno di cose fatte solo per stupire le menti piccole che non capivano quante menzogne ci fossero dietro quei numeri così mirabolanti. Ogni volta che veniva obbligato dal suo giornale a dover recensire uno di quegli spettacoli, provava un certo piacere a smontarli pezzo per pezzo, distruggendo la loro reputazione e mostrando a tutti quanto fossero inutili.

C'era uno spettacolo, però, che lo aveva rapito. O almeno, una persona in particolare, un equilibrista che si esibiva ogni sera con il suo circo da quattro soldi, ma era la cosa più bella che avesse mai visto. Aveva il volto di un angelo, e si muoveva con gesti ampi e precisi, senza mai mostrare la minima esitazione. Alexander era rapito dal suo volto e dai suoi occhi, e dai suoi capelli che si muovevano ogni volta che volteggiava e si muoveva con i suoi attrezzi. Aveva cercato ogni modo per evitare di dover recensire quel circo, sapendo che non sarebbe mai riuscito a parlar male di quel bellissimo uomo dal viso così innocente. Aveva nascosto a tutti il suo andare ogni volta che poteva a vederlo, e sperava sarebbe continuato a funzionare.

Una sera, però, il proprietario del circo lo riconobbe.

"Lei è uno dei critici del giornale, vero?! Per favore, venga con me, venga! Le mostro il dietro le quinte del nostro mirabolante spettacolo!"

Alexander cercò di trovare mille scuse per sottrarsi a quel supplizio, ma non riuscì a convincere l'uomo. Prima di rendersene conto si ritrovò dietro le quinte, dove decine di persone si stavano freneticamente preparando per i loro numeri. Era sporco, ed era confusionario, e Alex non sopportava l'odore degli scarti degli animali, ma ormai non poteva tirarsi indietro.
Seguì l'uomo per un breve tour, dove cercò di fargli vedere tutte le loro attrazioni, incensando ogni singola persona in modo così esagerato da fargli roteare gli occhi. Stava per rispondere per le rime, quando improvvisamente vide, poco lontano, quell'uomo che l'aveva rapito così tanto.

"Scusi, posso... Vorrei parlare con il vostro equilibrista."

"John? Oh, il ragazzo è sempre così impegnato..."

"Farò veloce."

Tagliò corto lui, e lo superò per avvicinarsi a John, guardandolo per un secondo. Da vicino, era ancora più splendido.

"John, vero? Piacere. Alex."

John sorrise, e gli strinse la mano che Alex stava tendendo. Era così bello, faceva quasi male guardarlo.

"Piacere, Alex. Sei qui per scrivere una recensione?"

"Io? Non... Non sono proprio un fan dei circhi, di solito..."

John rise piano, e incrociò le braccia, facendo l'occhiolino.

"Facciamo così, se scrivi qualcosa di carino su di noi, ti do un bacino sulla guancia."

Se volevano giocare, Alex sapeva come fare.

"Io non lavoro con il nemico. Se vuoi una buona recensione, come minimo mi devi una cena."

Il ragazzo sorrise, dolce. Alex si sentì sciogliere.

"Va bene. Affare fatto."

John annuì, per poi scappare via. Alex sorrise. Allearsi con i suoi acerrimi nemici non sarebbe stato poi così male, per una volta.
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Fandom: Hamilton
Wordcount: 500
Rating: Safe
Iniziative: CowT 9

 Le stelle più brillanti del circo, l'attrazione che tutti aspettavano con trepidazione, le vere celebrità che tutti sognavano di essere. Thomas e Gilbert, i gemelli francesi che tutti volevano ammirare durante le loro esibizioni, erano sempre pronti a tornare sui trapezi. Lassù dove tutto ciò che contava era la loro sincronia, il modo in cui si fidavano ciecamente l'uno dell'altro dopo anni ed anni di allenamento. Si gettavano nel vuoto sapendo che l'altro sarebbe sempre stato pronto a tendere la sua mano, dimenticandosi totalmente di ciò che c'era sotto di loro, rete compresa.

Alexander non aveva mai visto nulla di così bello in vita sua. Sembravano angeli in grado di conquistare l'intero cielo, quando si trovavano nel loro habitat naturale.
E il pubblico, ovviamente, li amava più di ogni altra cosa. Erano belli, avevano un accento esotico, ed erano così affiatati da far girare parecchie voci sul loro conto. Non che loro non facessero nulla per alimentarle.

Alexander lavorava per il circo da poco, ma Gilbert era stato uno dei primi ad accoglierlo. Nonostante fosse una delle star, parlava con tutti allo stesso modo ed era sempre pronto a dare una mano ai nuovi arrivati. Hercules, il costumista, gli aveva subito detto di chiedere qualsiasi cosa di cui avesse bisogno al francese, che sarebbe sempre stato pronto ad aiutarlo.
Il problema fondamentale era che, invece, il fratello era di tutt'altra pasta: elegante e bellissimo, certo, ma anche spocchioso e talmente irritante da non poterlo sopportare per più di cinque minuti al giorno. Sapeva perfettamente di essere la punta di diamante e si comportava come tale, pretendendo sempre il meglio senza perdere un secondo del suo prezioso tempo per aiutare. Alexander l'aveva visto poche volte, ma già lo odiava così tanto da non riuscire a stare nella stessa stanza con lui.


Il punto era che i due erano gemelli. Uguali. Perfettamente uguali. E Alexander finiva sempre per confonderli e chiedere cose imbarazzanti a Thomas invece che a Gilbert. Il dannato ogni volta si metteva a ridere e lo prendeva in giro, cosa che non faceva che peggiorare il suo astio nei suoi confronti.

"Davvero, come fai a stare sempre con tuo fratello? È odioso"

Aveva confidato a Gilbert. Lui aveva riso, divertito, per poi guardarlo e scrollare le spalle.

"Non saprei, a me non sembra così male. Siamo cresciuti insieme, per me è la persona migliore sulla faccia della terra."

Alexander sbuffò. Doveva immaginarselo, Gilbert era sempre troppo buono con tutti.

"Immagino tu abbia ragione."

"Sai, dovresti parlarci un po'. Secondo me, ti troveresti bene con lui, prima o poi."

Fece un'occhiolino che Alexander non sapeva come interpretare, ma decise di non chiedere nulla. Si limitò a borbottare, incrociando le braccia.

"Tu sei sempre troppo ottimista, Gil."

L'altro rise a bassa voce, con l'aria di chi sa decisamente troppo.

"Magari ne riparleremo quando cercherai di mettermi la mano nei pantaloni."

Alexander arrossì di colpo, e uscì di fretta dalla stanza. Altro che angeli, quei due gemelli erano diavoli arrivati direttamente dall'inferno.

Letting go

Mar. 9th, 2019 10:54 pm
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Fandom: The Punisher

Personaggi: Frank Castle

Warning: Soulmate!AU

Rating: Safe

Wordcount: 538

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Addormentarsi e sognare

Nel momento in cui l'acido toccò la pelle, Frank lasciò un ringhio basso. I suoi nervi lanciavano scosse di dolore lungo tutto il suo corpo, la pelle lentamente si scioglieva sotto la sostanza ed ogni secondo che passava la sensazione di caldo aumentava, arrivando a livelli quasi insopportabili. Non era un lampo di dolore unico, era un lento trascinarsi di agonia che continuava secondo dopo secondo, peggiorando ad ogni respiro. Uno degli angoli ancora lucidi della mente di Frank gli fece notare quanto fosse ironico, che quel dolore ricordasse così tanto il dolore che si portava dietro ogni giorno.

Era piena notte, e nessuno poteva sentire i suoi gemiti soffocati e il suo pugno che batteva ripetutamente contro il muro nel tentativo di sfogare il dolore. Era stato un gesto istintivo, ma l'ex marine non riusciva a trovare un motivo per pentirsene. Quella sera si era addormentato, tra mille problemi come sempre, solo per essere accolto dagli ennesimi incubi. Quelle immagini piene di colori e di speranza, piene delle risate dei suoi bambini, degli occhi di sua moglie, delle loro voci mescolate e piene di allegria. Quelle immagini che venivano distrutte, infrante come vetri dai proiettili di persone senza volto, che massacravano la sua intera famiglia senza che lui potesse fare nulla. Ancora, e ancora, e ancora ogni notte. Ogni singola notte i sogni tornavano e Frank viveva quel giorno da capo, ancora e ancora, senza mai fine, una spirale che sembrava non avere fondo.

Svegliatosi dell'ennesimo incubo, Frank aveva preso quella decisione. Aveva preso una bottiglia dell'acido più forte che aveva, aveva tolto la maglietta e aveva lasciato colare poche gocce sulla pelle, proprio lì dove si trovava il suo marchio, scuro e ben visibile.
E faceva male, il dolore sembrava non passare, e la pelle cominciava a colare piccole gocce di sangue, che Frank tentava di tamponare con del cotone. Dubitava di aver mai sentito così tanto dolore in vita sua. Aveva visto e provato tante cose, ma quel dolore continuo e pulsante consumava la sua mente tanto quanto la sua pelle, mangiando le cellule e la sua forza di volontà.

Passarono minuti, ore, o forse secondi. Frank non sapeva dire quanto, troppo concentrato a contare i graffi sul pavimento sotto di lui nel tentativo di estraniarsi dal dolore. Quando finalmente le pulsazioni si fecero meno soffocanti e il bruciore smise di dilaniarlo, Frank si sollevò in piedi, allontanando appena il pezzo di garza per guardare la ferita sotto. Era ancora rossa, lo strato di pelle superficiale totalmente scomparso, insieme al marchio che aveva ospitato. Frank sospirò pesante, prese del disinfettante e lo spruzzò dall'alto sulla ferita, stringendo i denti per il dolore. La chiuse con garza pulita, e chiuse gli occhi qualche secondo.

Poteva non essere molto. Poteva essere solo un gesto simbolico, ma sperava in cuor suo che gli incubi avessero pietà di lui. Che sua moglie avesse pietà di lui. La persona a cui aveva dedicato la vita, l'unica per cui quel marchio era utile. Tanto valeva lasciarlo morire insieme a lei.
Forse, ora, poteva cercare qualcos'altro. Un'identità diversa. O forse, riscoprire ciò che era sempre stato. Se solo la morte poteva accompagnarlo, allora una cicatrice era molto più adatta alla sua pelle.

Yours

Mar. 9th, 2019 10:35 pm
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi: Shinobu Kawagiri, Kosaku Kawagiri (Kira Yoshikage), Hayato Kawagiri

Rating: Safe

Wordcount: 945

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Addormentarsi e sognare

Kosaku prese i suoi polsi, stringendoli con forza tra le sue dita forti, e li bloccò contro il muro dietro di lei. Shinobu lasciò un sospiro pesante nel sentire il corpo del marito premersi contro il proprio, gli occhi fissi nei suoi, così glaciali, eppure così eccitanti. La donna inarcò la schiena nel tentativo di cercare maggiora contatto, maggiore vicinanza, ma il marito continuava a tenerla bloccata, impedendole di muoversi quanto avrebbe voluto.
Kosaku abbassò la testa, baciando con controllata foga il collo della donna, che lasciò andare un lieve gemito nel sentire le sue labbra calde sulla pelle. Erano tanti anni che non sentiva qualcosa di simile, quel trasporto e quella passione che il marito le aveva rovesciato addosso dal nulla. Sembrava un'altra persona, forte e controllato ma passionale e pieno di desiderio. Shinobu non poteva fare altro che arrendersi a lui, offrendogli il proprio corpo più sinceramente e felicemente di quanto avesse mai fatto prima.

Senza alcun preavviso, il marito la prese per i fianchi e la tirò via dal muro, obbligandola a voltarsi, e premendo pesantemente il suo petto largo contro la sua schiena. Shinobu lasciò un piccolo verso sorpreso, e cercò di piegarsi appena in avanti, in modo da far aderire meglio il sedere contro il cavallo ancora coperto dei pantaloni del marito. Kosaku lasciò un verso basso, simile a un ringhio profondo, e allungò le mani in avanti per stringere il seno scoperto della moglie. Le sue mani forti avvolsero entrambi i seni, stringendoli con forza e premendola ancora meglio contro di lui. Le dita si spostarono, stringendosi attorno ai suoi capezzoli, e strappando piccoli gemiti acuti alla donna. Shinobu era bloccata, in totale balia del suo uomo, e mai era stata più contenta. Il suo corpo tremava ad ogni tocco, tendendosi alla ricerca di quel piacere che la faceva sentire viva come mai si era sentita.

Una delle mani di Kosaku scese lentamente, fino ad incontrare il bordo delle mutande che aveva comprato appositamente per lui, e le scostò delicatamente di lato, in modo da far scivolare le dita contro le sue grandi labbra, toccandole con delicatezza. Shinobu lasciò un altro piccolo gemito, abbandonandosi contro il muro, mentre il marito affondava delicatamente le dita tra le sue grandi labbra e cominciava a toccarla con gentilezza, stimolandola sapientemente. Pochi minuti, e Shinobu aveva perso ogni controllo del suo corpo, si limitava a gemere ad ogni tocco del marito, piegarsi e tendersi in ogni direzione lui le indicasse. Sussurrava preghiere a bassa voce, cercando di strofinarsi contro il suo cavallo, sentendo la sua erezione bloccata dai pantaloni premere contro il tessuto e strofinarsi contro le sue natiche nude. Il marito era silenzioso come sempre, non lasciava trasparire alcuna emozione, ma bastavano i suoi tocchi forti, il suo fiato pesante contro il suo collo, per far sentire a Shinobu quanta passione il suo uomo stesse cercando di trattenere.



Quando finalmente Kosaku si allontanò di pochi centimetri e abbassò i propri pantaloni, liberando il suo membro rigido, Shinobu lasciò un piccolo gemito contento. Si sporse subito verso di lui, ed allargò meglio le gambe nel tentativo di lasciargli più spazio. Kosaku si allontanò di un passo, le mani salde sui fianchi della moglie. La guardò per qualche secondo, facendola sentire esposta e imbarazzata, ma allo stesso tempo bella e desiderata. Shinobu voltò la testa verso di lui, il fiato pesante, una preghiera silenziosa nello sguardo.

Kosaku non si fece attendere oltre, prese il proprio membro con una mano e lentamente scivolò dentro di lei, il suo membro spesso e rigido che la allargava e stimolava tutte le sue pareti. Senza lasciarle tempo di abituarsi, Kosaku abbassò le mani per stringere nuovamente i suoi seni, tenendola bloccata con la schiena contro il suo petto, e cominciò a muoversi con movimenti veloci e profondi dentro di lei, il fiato pesante che solleticava il suo orecchio. Shinobu era totalmente persa, si lasciava andare alla forza ed alla passione del marito, incontrando ogni sua spinta e gemendo ad alta voce.
Sentiva tutto il corpo teso, sensibile ad ogni tocco e ad ogni stimolo, alla continua ricerca di maggiori attenzioni da parte del marito. Shinobu gemette ancora ad alta voce, sentendo l'orgasmo avvicinarsi velocemente, continuava a muoversi nel tentativo di sentirlo meglio, sempre più a fondo, inseguendo quel piacere che la stava inondando sempre di più, fino a---



" Mamma? Mamma! "



Shinobu si svegliò di colpo, sentendo la voce del figlio che la chiamava. Si alzò di scatto dal divano, guardandosi attorno con aria spersa. Hayato la guardava preoccupato.



" Mamma, stai bene? "



Lei sbatté gli occhi un paio di volte. Si era addormentata? Doveva essersi stesa sul divano per riposarsi un poco, evidentemente era scivolata nel sonno senza accorgersene?



" Sì, sì, scusami piccolo... Mi ero addormentata. Sei già tornato da scuola? Stai bene? "



" Sì. Vado a fare i compiti, mi prepari la merenda? "



Lei annuì lentamente, ancora stordita.



" Certo. "



Lui sorrise e la ringraziò, per poi correre al piano di sopra, in camera sua. Shinobu sospirò pesantemente, cercando la forza di alzarsi dal divano. Davvero aveva sognato tutto? Kosaku, il suo corpo forte, i suoi baci passionali...

Shinobu sentì le guance avvampare. Non pensava di essere in grado di sognare cose così... sporche. Ma non poteva farne a meno. In quel periodo il marito era cambiato, era diventato così affascinante, sembrava nascondere un fuoco dentro che mai aveva visto prima...



Shinobu si alzò svogliatamente, e sospirò nel sentire il liquido caldo che scendeva tra le sue gambe, bagnandole la prima parte delle cosce.

Doveva preparare la merenda ad Hayato. Ma prima di tutto, doveva proprio farsi una bella doccia.
iperouranos: (Default)

Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi: Jotaro Kujo; Josuke Higashikata

Rating: Safe

Wordcount: 950

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Addormentarsi e Sognare



Il buio lo avvolgeva, e non c'era nulla che Jotaro potesse fare. Quella coltre nera, così spessa da sembrare solida, lo avvolgeva e gli impediva di vedere qualsiasi cosa, di fare qualsiasi cosa, di pensare anche solo ad un modo per potersene liberare. Era spaventosa ed era pericolosa, lo poteva sentire sulla propria pelle.
Ma non era quello che lo preoccupava.
Ciò che lo stava dilaniando era il suono. Quel rumore ovattato, come lontano ed irraggiungibile, ma allo stesso tempo abbastanza chiaro da poter capire di cosa si trattava: erano nomi urlati al vento, voci cariche di paura, disperazione, frustrazione. E Jotaro riconosceva quelle voci, riconosceva la voce alta e chiara del vecchio, riconosceva la voce profonda ma scossa dalla paura di Abdul, riconosceva la voce rombante ma carica di preoccupazione di Polnareff, e quella solitamente così calma e controllata di Kakyoin, che invece ora sembrava scossa da un dolore che lo stava dilaniando.

E Jotaro sentiva tutto, sentiva le loro parole, le loro urla, sentiva i suoi amici chiamarsi a vicenda e cercare di capire se gli altri erano ancora vivi, sentiva il vecchio e Polnareff urlare contro un nemico che Jotaro non poteva vedere, maledicendolo per ciò che stava facendo. Jotaro sentiva, lontano eppure così chiaro, ed era un dolore insopportabile. I suoi amici morivano attorno a lui, e lui era bloccato in quella coltre nera che non gli lasciava via d'uscita. Agitava le braccia prendeva a pugni il nulla, Star Platinum urlava la sua rabbia sferrando i suoi pugni più potenti contro il nero davanti a lui, ma nessuno dei due riusciva a fare niente, era come prendere a pugni un corso d'acqua, che continua a scorrere totalmente disinteressato.
Jotaro continuò a colpire il nulla, cercò di urlare, di chiamare i suoi amici, ma la sua voce si perdeva in quella bolla nera. Era inutile, qualsiasi cosa facesse era totalmente inutile. Continuò ad agitarsi, a cercare di urlare, di colpire ciò che aveva davanti. Cercò di calmarsi e guardarsi intorno, trovare il più piccolo appiglio, ma era tutto inutile. E le voci continuavano ad urlare, ed allo stesso tempo lentamente scemavano, e Jotaro poteva sentire la vita abbandonare i suoi amici. Non poteva smettere, doveva continuare, lottare contro quel nemico invisibile che lo avvolgeva e lo bloccava, e così continuava a colpire, a urlare, anche quando i suoi muscoli cominciarono a fare male, quando le sue gambe cominciarono a cedere sotto il suo peso. Non sapeva quanto tempo fosse passato, ma le voci erano sempre più flebili, e Jotaro sempre più stanco, e la tensione e la disperazione lo avvolgevano più strette di quelle spire nere, soffocandolo dall'interno. La voce profonda di Star Platinum urlava la sua disperazione, la sua frustrazione, graffiando le orecchie di Jotaro. Ma nessuno dei due poteva fare niente, continuavano a colpire inutilmente quella coltre inamovibile.
E le voci, sempre più deboli, li stavano abbandonando.
E Jotaro continuava a colpire, senza più forza, mosso solo dal desiderio di sentire ancora quelle voci. Non potevano lasciarlo da solo. Non poteva rimanere da solo di nuovo. Non potevano andarsene. Non potevano morire lontano da lui, mentre lui era bloccato in quel mondo nero.
La forza lo abbandonava sempre di più, e Jotaro crollò in ginocchio senza quasi accorgersene, Star Platinum piegato dalla propria stessa fatica tanto quanto lui. Jotaro guardò la coltre scura, quel nemico che non poteva abbattere in nessun modo, né con la forza bruta, né con la propria intelligenza. aveva cercato di appigliarsi ad ogni sua dote, e nulla era servito, era stato sconfitto ed i suoi amici, lontani, erano morti a causa sua, urlando di dolore.

" Jotaro? Jotaro! "

La voce cristallina del ragazzo lo raggiunse da lontano, strappandolo da quel mondo buio, forte e decisa come un uncino, ma delicata e gentile come... Jotaro non sapeva definire come.
L'uomo aprì gli occhi di scatto, guardandosi attorno. La stanza d'albergo era scura, ma la luna illuminava le pareti e parte dell'arredamento, ricordandogli dove si trovava. Era a Morioh, la piccola ma piacevole cittadina giapponese nel quale si era fermato per qualche mese. Ed era sera. E quella voce, quella mano che gli stringeva gentilmente la spalla, quello poteva essere solo Josuke.
Jotaro voltò la testa a guardarlo, il volto del giovane fiocamente illuminato, ma i suoi occhi erano abbastanza visibili da strappare un sorriso al maggiore.

" Oh, sei sveglio. Sembravi agitato, nel sonno. Incubi? "

Jotaro si portò una mano alla testa. Un incubo, certo. Non era la prima volta che succedeva. Riusciva ancora a sentire la sensazione pressante dell'oscurità sulla pelle, nelle sue orecchie la voce dei suoi vecchi amici ancora vibrava della stessa forza e dolore. Doveva essere un incubo. In fondo, gli incubi erano l'unico posto in cui poteva ancora sentire la voce di alcuni di loro. Diversamente dalle altre volte, però, Jotaro non si era svegliato al mattino madido di sudore, soffocando a malapena un gemito di dolore, con il corpo che tremava e le mani strette così forte che le dita facevano male. Guardò di nuovo verso il ragazzo, che ancora aspettava una risposta alla sua domanda. Colui che l'aveva preso e trascinato fuori da quella bolla di oscurità, colui che forse non poteva cambiare il passato, e non poteva curare le sue cicatrici, ma si prodigava ogni giorno nel tentativo di migliorare il suo futuro e proteggerlo da nuove ferite. Jotaro allargò un lieve sorriso, nascosto nella penombra.
Probabilmente gli incubi non se ne sarebbero mai andati, ma era bello sapere che qualcuno poteva trascinarlo fuori, se quel peso diventava... Troppo.

" Torna a dormire, Josuke. Non è nulla. "

E forse, per una volta, quella frase era una menzogna solo per metà.
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Fandom: Hamilton

Personaggi: Lafayette, Peggy Schuyler

Warning: Modern!AU

Rating: Safe

Wordcount: 507

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Cadere e farsi male

Lafayette guardò Peggy con aria perplessa, mentre cercava di imitare i suoi movimenti. Lei sorrideva, cercando di incoraggiarlo. Batteva lentamente le mani, ripetendo i movimenti che aveva ormai fatto vedere al ragazzo milioni di volte. Meno male che Alex ed Eliza avevano scelto delle canzoni tranquille per i balli del loro ricevimento di matrimonio, o quello che era già un incubo così non sapeva cosa sarebbe diventato. La cosa più divertente era che Lafayette non era il primo del gruppo che veniva piangendo da lei a chiedere aiuto: Hercules aveva voluto lezioni (non che fosse difficile, era un ballerino nato esattamente come lei, e poi si trovava sempre bene a passare del tempo con lui) e soprattutto, cosa di cui non avrebbe mai smesso di vantarsi, niente meno che Aaron Burr, colui che tutti pensavano fosse un androide travestito da essere umano mandato sulla terra da un popolo alieno per scoprire le debolezze della razza umana.
Ad ogni modo, Laf era sicuramente il più difficile tra tutti. Nonostante fosse una persona estremamente elegante nella vita di tutti i giorni, sembrava mancare totalmente di coordinamento. E non solo, il suo senso del ritmo era ottimo, ma la memoria dei passi era inesistente. Tutto il pomeriggio, e non avevano ancora finito uno straccio di coreografia per la prima canzone.

"Bravo! Continua così. Destra, sinistra, e ancora destra... Oddio Laf! Stai bene?!"

La ragazza corse al suo fianco, spaventata nel vederlo cadere a terra rovinosamente dopo aver cercato di incrociare i piedi per eseguire i suoi passi, fallendo miseramente. Lafayette si lamentò un po', la schiena che faceva male a causa della botta, ma soprattutto profondamente ferito nell'orgoglio.

"Non sono capace! Peggy, non ci riuscirò mai, sono troppo impacciato per queste cose..."

Si lamentò, per l'ennesima volta durante la giornata. Peggy, che l'aveva visto cadere almeno altre tre volte solo nelle ultime due ore, sospirò pesantemente. Cominciava ad essere seriamente preoccupata, per la sua schiena. Se continuava così, si sarebbe fatto male davvero prima o poi. O forse avrebbe semplicemente continuato a lamentarsi.

"Non devi abbatterti così. La danza è prima di tutto istinto, devi lasciarti andare, non pensare troppo ai passi, o finirai solo per inciamparti continuamente."

"Ma inciampo già continuamente!"

Si lamentò ancora lui, mentre lentamente cercava di alzarsi. Peggy sospirò di nuovo. Come diavolo faceva ad insegnare la divina arte del ballo a qualcuno che continuava ad essere così poco collaborativo?

"Senti, tesoro. O ti alzi in piedi e riprendi ad allenarti, o ti faccio alzare a calci nel sedere. Non vorrai mica fare brutta figura al matrimonio di Alex ed Eliza, vero? Sai, quello dove ci sarà il capo di Alex, il signor Washington, quel signore sempre tutto d'un pezzo, sempre vestito bene, proprio lui..."

Lafayette arrossì vistosamente, e borbottò qualche parola a mezza voce prima di rialzarsi in piedi.

"E va bene! Diamoci da fare, forza!"

Peggy sorrise, soddisfatta dalla sua reazione. Gli uomini erano tutti uguali: avevano solo bisogno della giusta spinta. E meno male che sapeva perfettamente qual era quella giusta per Lafayette.
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Fandom: Overwatch

Personaggi: Gabriel Reyes, Jesse McCree

Rating: Safe

Wordcount: 577

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Cadere e farsi male

Le spire si estesero in un movimenti unico ed armonioso, veloci e letali attorno al braccio di Gabriel. Un lampo, un secondo in cui tutto il mondo attorno a lui divenne nero, e subito dopo il comandante di Blackwatch si trovò a terra.
Non sapeva cosa fosse successo, riusciva a sentire in un angolo della propria mente che doveva essersi fatto male al braccio ed alla gamba, sentiva il bruciore acuto di tagli appena fatti sulla pelle. Sentiva in lontananza anche la voce di Moira, che sembrava stesse chiamando qualcuno, forse altri medici. Non lo sapeva, né era interessato a scoprirlo. Tutto il mondo attorno a lui sembrava lontano, era come essere chiuso in una bolla. Il suo stesso corpo sembrava appartenere a qualcun altro. Tutto ciò che Gabriel riusciva a sentire vicino a sé era quella voce, quel sibilo lontano, un fruscio indistinto nel quale il comandante non distingueva alcuna parola. Eppure, ne aveva paura. Una paura forte, cocente, totalizzante, come mai ne aveva sentite prima. Aveva paura perché quel sibilo era vicino, e tutto il resto, tutto il suo mondo, era lontano, sempre più lontano. La sua vita, il suo corpo, tutto sembrava star scivolando via dalle sue dita, ogni giorno di più.

Moira entrò nel suo campo visivo, e probabilmente avvolse un braccio intorno alle sue spalle, perché Gabriel si sentì sollevare lentamente. Avrebbe voluto parlare, e avrebbe voluto aiutarla, ma non riusciva ad avere alcun controllo sul proprio corpo. Tutto ciò che poteva fare era guardare mentre un paio di uomini che conosceva di vista si aggiungevano alla dottoressa, aiutandola a sollevarlo, e portandolo di peso fino al lettino, per farlo sdraiare. Sentì Moira chiamarlo ripetutamente, ma era come se i suoi nervi non volessero rispondere ai suoi diretti comandi. Era tutto troppo lontano, tutto troppo scuro.

Gabriel si era lasciato andare a quella sensazione di estraniamento, senza riuscire a capire come reagire. Il sibilo continuava ad avvolgere i suoi sensi e la sua mente, allontanandolo sempre di più dalla realtà, e Gabe si sentiva scivolare, sempre più a fondo, sempre più dentro quel buco di vuoto che lo circondava.
Poi, una voce ruppe ogni barriera, ogni distanza, squarciò la bolla che lo allontanava dal mondo esterno, e lo prese come un uncino, indicandogli la via di casa.

"Hey, boss! Boss! Stai bene? Moira, dannazione, ti avevo detto di smetterla!"

E Gabe, se avesse potuto, avrebbe riso. Perché la rabbia mista a preoccupazione di Jesse coloravano la sua voce, rendendo il suo accento più marcato del solito. Era divertente, ed era casa, più di ogni altra cosa in quel posto. E Gabe vide la strada di casa, e reagì con tutta la propria forza, rompendo la bolla e riemergendo per tornare in controllo del suo corpo, tranciando le spire di oscurità, ignorando il sibilo in fondo alla sua mente.

" Sto bene. "

Sussurrò solo, perché valeva la pena tornare dall'inferno solo per poter rassicurare il suo cowboy. E Jesse ignorò di colpo Moira, tornò a guardarlo, ed aprì un sorriso sollevato.
E Gabriel poteva sentire ancora quel sibilo, poteva avvertire le spire nere scivolare dentro al suo corpo, sotto la pelle, poteva sentire quel nuovo potere avvolgerlo e trascinarlo giù, sempre più giù, ma in quel momento non importava. In quel momento era ancora a casa, ancora per un po'. Ed ogni secondo in più in compagnia di Jesse McCree era abbastanza per ripagarlo di ogni sofferenza che sarebbe un giorno arrivata.
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Fandom: Fate Series

Personaggi: Waver Velvet

Rating: Safe

Wordcount: 592

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Addormentarsi e sognare




Erano passati anni, eppure capitava fin troppo spesso. Anche quella mattina, Waver si era alzato grondante di sudore, il peso dei sogni che avevano colorato la sua notte ancora sulle spalle.
Erano passati tanti anni, ma la presenza del suo Re non aveva mai lasciato il suo fianco. La notte, quando il mondo dormiva e il mago abbassava le sue barriere, poteva ancora sentire i suoi sussurri. La sua voce in lontananza che lo spronava ad andare avanti, vivere la sua vita come un vero conquistatore, dimenticando tutto ciò che gli altri maghi gli dicevano. Potevano dire che non era abbastanza. Potevano dire che era debole, che il suo sangue non era abbastanza pregno di magia per poter davvero diventare un mago potente, ma quelle parole erano più forti. Basse, sussurrate, eppure tonanti nella loro assolutezza. Ancora una volta, era Iskandar a ispirarlo, spronarlo, spianargli la strada per fargli vedere ciò che lo attendeva in fondo.

Ogni volta che quei sogni tornavano, ogni volta che quella voce tornava a sussurrare vicino al suo orecchio, Waver sentiva il petto stringersi. Avrebbe voluto tendere una mano, cercare di raggiungerlo. In tanti dei suoi sogni brancolava nel buio, cercando a tentoni il grande imperatore, urlando il suo nome mentre cercava di raggiungerlo. Ma Iskandar era sempre troppo lontano, in un mondo in cui Waver non poteva raggiungerlo. Tanti altri sussurri lo tentavano. Dicevano che bastava poco, per congiungersi nuovamente con lui. Bastava lasciarsi andare. Bastava un sospiro, e tutto sarebbe finito. Avrebbe potuto raggiungere quel reame in cui solo le anime senza più corpo potevano entrare.
Ma Waver aveva fatto una promessa, a quel suo stesso Re. Aveva promesso che sarebbe stato suo testimone nel mondo, che avrebbe continuato a vivere per lui e per il suo ricordo. E non poteva tradire quella promessa. Quindi, poteva solamente guardarlo da lontano, sentire la sua voce che flebile ma sicura arrivava fino a lui. Godere di quel piccolo contatto, urlare in sua direzione nel tentativo di farsi sentire ancora una volta. Per ricordargli che lui era ancora il suo fedele suddito. Che non aveva mai dimenticato la sua promessa, e mai lo avrebbe fatto.

Waver sospirò, cercando di scrollarsi di dosso quella sensazione di pressante e dolorosa malinconia che lo colpiva quando si risvegliava da quei sogni troppo vividi per essere solamente sogni. Si alzò dal letto e attraversò la stanza, raggiungendo lo scatolino in legno intarsiato nel quale custodiva il prezioso pezzo di stoffa con il quale aveva evocato il grande Alessandro Magno. Strinse le dita sulla stoffa rossa, come se quel semplice contatto potesse dargli la forza di cui aveva così disperatamente bisogno in quell'esatto momento.
Doveva solo tornare a letto. Ricordarsi ciò che aveva ereditato da quell'uomo che aveva cambiato la sua vita con un soffio. Ricordarsi che la morte non bastava a ingabbiare lo spirito di chi aveva giurato fedeltà al Re dei Conquistatori.
Doveva solo respirare, ricordarsi quante cose aveva ancora da fare. Quanto lavoro. Quanti obiettivi.
Un giorno, il suo tempo sarebbe giunto, e avrebbe potuto raggiungere il suo Re, fiero di tutto ciò che era riuscito ad ottenere dalla vita. Un giorno, avrebbe potuto raccontargli ogni cosa, ogni avventura. E ogni sogno.
Un giorno, si sarebbero rivisti. Waver ne era certo. Ma ora, il suo compito non era ancora finito.
Tornò a letto, e chiuse gli occhi, cercando di ricordare da quale punto della sua mente proveniva quella voce. Poteva ancora correrle incontro, sentirla per qualche altro secondo, prima di ricadere nelle braccia di Morfeo, in attesa del nuovo giorno.
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi: Josuke Higashikata, Koichi Hirose, Mikitaka Hazekura

Rating: Safe

Wordcount: 1026

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Ridere all'improvviso

Koichi guardò Josuke con aria perplessa.

" Tu ha bisogno di... cosa ? "

" Un nascondiglio! Nascondimi, Koichi! Prima che arrivi Rohan! "

Josuke si appiccicò meglio contro il muro. Mikitaka, di fianco a lui, sembrava mortificato, ma Koichi non aveva idea di quale potesse essere il problema.

" E va bene! Vieni con me a casa mia, muoviti! "

Rispose semplicemente, facendo segno all'amico di seguirlo. Josuke lo ringraziò ripetutamente, seguendolo veloce e circospetto lungo la strada. Mikitaka li seguiva a sua volta, sembrava davvero molto triste. Koichi decise che, una volta arrivati a casa, avrebbe cercato di capire cosa lo faceva sentire così. E se era colpa di Josuke, il ragazzo lo avrebbe sentito. Mikitaka era una persona (alieno?) così buona e gentile, non si meritava di venire trattato male da Josuke.

Arrivarono a casa nel giro di pochi minuti, ed una volta varcata la porta Josuke tirò un grosso sospiro di sollievo, guardando Koichi con occhi carichi di gratitudine.



" Ti sono debitore, Koichi. Grazie. "

Koichi, però, non aveva alcuna intenzione di stare lì a sentire le sue scuse o i suoi ringraziamenti. Voleva spiegazioni. Incrociò le braccia, e aggrottò le sopracciglia, cercando di farsi più alto di quanto non fosse.

" Si può sapere cosa succede?! Perché Mikitaka è così triste?! E perché stai scappando da Rohan sensei?! "

Josuke sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte. Aprì la bocca per parlare, ma fu bloccato da Mikitaka, che intervenne per primo.

" È colpa mia! Mi dispiace, Josuke! Ti eri fidato di me! "

Josuke agitò le braccia, nel tentativo di calmarlo.

" Ma no! Non preoccuparti! "

Koichi si stava spazientendo.

" Hey! Rispondetemi! "

Josuke sospirò ancora.

" Allora... devi sapere, eravamo andati a casa di Rohan. Per... avere una rivincita a dadi. "

" A dadi? E cosa c'entra Mikitaka? "

" Mikitaka era i dadi. "

" Mikitaka era COSA?! "

Koichi lo guardò con aria incredula. Josuke si passò una mano sulla nuca, ridendo appena.

" Andiamo Koichi, non prendertela così... non è niente di grave, e poi cosa vuoi che sia, Rohan è pieno di soldi, anche se ne perde qualcuno con me non cade mica dall'alto... "

" Josuke!! "

" Vuoi sentire il resto della storia o no?! "

Koichi sbuffò, ma rimase in silenzio, facendo segno all'altro di continuare. Josuke annuì un poco e riprese a parlare.

" Ecco, eravamo a casa di Rohan, e avevamo ricominciato la nostra partita. Questa volta Mikitaka ha anche preso delle caramelle contro la nausea, quindi eravamo sicuro che sarebbe andato tutto bene. Ha anche evitato di fare tutti risultati bellissimi come l'ultima volta, così Rohan non si è insospettito troppo. Il problema è che ad un certo punto Rohan ha... preso i dadi in mano, e siccome stava perdendo, era tutto assorto nei suoi pensieri, e si era messo a strofinare i dadi con le dita, e... "

Mikitaka lasciò un piccolo gemito carico di vergogna. Josuke sospirò, poggiandogli una mano sulla spalla nel tentativo di consolarlo. Koichi guardò Josuke con aria interrogativa.

" E cosa?! "

" Ha fatto il solletico a Mikitaka. E lui è scoppiato a ridere dal nulla, perché non riusciva più a trattenersi. Rohan si è insospettito, perché non è esattamente normale che dei dadi scoppino a ridere... e ha capito che lo stavamo... che non eravamo esattamente nel totale rispetto delle regole, ecco. "

" Rohan vi ha scoperto mentre baravate a dadi?! Ti vorrà morto, come minimo! "

Josuke sospirò.

" Proprio per questo ci stiamo nascondendo da te! In fondo, non potrebbe mai radere al suolo la tua casa. Ti vuole troppo bene. "

" Mi stai usando come sottospecie di ostaggio?! "

Josuke agitò le mani davanti a sé.

" Ma no! Non lo farei mai! Andiamo! Al massimo, come capro espiatorio... o qualcosa di simile... magari scudo umano... "

Koichi aggrottò le sopracciglia, offeso. Prese delicatamente Mikitaka e lo portò in cucina, offrendogli un succo di frutta per calmarlo (Mikitaka accettò tutto allegro, e sembrò riprendersi un minimo), poi tornò da Josuke, aprì la porta di casa, e cominciò a spingerlo fuori.

" Koichi?! "

" Non ho intenzione di farti da scudo umano! Se hai barato, esci là fuori e prenditi le tue responsabilità! "

Josuke lasciò qualche verso spaventato, mentre finiva in giardino.

" Andiamo, abbandoneresti davvero un amico nelle mani di una persona violenta e molto arrabbiata?! "

Koichi lo guardò male, e in tutta risposta chiuse la porta di casa, tornando dentro da Mikitaka. Sentì Josuke lamentarsi da fuori, ma decise di non preoccuparsene. Era stato un irresponsabile! Già la prima volta era scappato a malapena, ed era pure tornato a giocare contro Rohan, barando nello stesso identico modo della volta prima. E aveva messo in mezzo anche il povero Mikitaka! Questa volta, avrebbe dovuto vedersela da solo.
Koichi tornò in cucina, dove Mikitaka aveva finito il succo, e ora lo osservava con aria un poco preoccupata.

" Ma Koichi, davvero credi che Josuke sopravviverà all'ira di Rohan, questa volta? "

Koichi alzò appena le spalle.

" Nah. Oggi è giorno di consegna per le tavole per Rohan sensei, e mi ha detto stamattina che avrebbe dovuto passare tutto il pomeriggio a finire, perché ha procrastinato tutta la settimana. Se poi si è ancora perso dietro al giocare a dadi con voi, sarà sicuramente bloccato in casa a finire. "

Mikitaka sbatté gli occhi un paio di volte.

" E perché non l'hai detto a Josuke? "

" Magari così, la prossima volta impara. "

Mikitaka rise a bassa voce, gentile.

" Dubito. Sembra sempre così testardo. "

" Forse hai ragione. Magari la prossima volta andrò a dire a Jotaro che va in giro per la città a barare. "

" E pensi che lui lo punirà? Sembra un tipo pericoloso. "

" No, non credo. Però Josuke avrà di nuovo parecchia paura. Basterà quello. "

" Koichi! Alla fine dei conti, sei tu quello più pericoloso di tutti! "

Koichi rise appena, scuotendo la testa.

" Non hai mai avuto a che fare con Yukako, allora. Credimi. "
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi: Joseph Joestar, Caesar Zeppeli

Rating: NSFW

Wordcount: 1103

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Cadere e farsi male


Joseph lasciò un gemito lamentoso, stirando ancora di più la gamba.
" Ahia! Ahia! Fa male, Caesar! Smettila! "

Caesar sbuffò sonoramente, e ignorò le sue lamentele stringendo più forte la benda attorno alla sua coscia.

" Smettila di lamentarti. Grande e grosso, e poi tutte queste storie per una caduta. "

" Una caduta?! Mi sono piantato un pezzo di roccia nella coscia! Dovresti essere più comprensivo! "

" E tu dovresti usare meglio le onde e fermare da solo il sangue, magari velocizzando la guarigione. Ma hey, nessuno è perfetto. "

Joseph si lamentò ancora, ma incrociò le braccia e rimase fermo, lasciando finalmente che l'altro potesse fasciargli la gamba con più calma. Caesar osservò attentamente la fascia e la bendatura sotto, che chiudeva il buco lasciato dalla roccia che si era conficcata nella sua carne. Non era una ferita particolarmente grave, ma il sangue era uscito abbastanza copioso, facendo preoccupare Lisa Lisa ma soprattutto facendo lamentare ancora di più Joseph. Per fortuna, Caesar era bravo a trattare quel tipo di ferite, e per fortuna era in un momento abbastanza buono da riuscire a passare oltre quanto fosse incredibilmente irritante il modo di fare del suo compagno di allenamenti.

Joseph si guardò la gamba, provando a muoverla su e giù, e provando a girare un po' la coscia, per sentire quanto tiravano i muscoli. Fece una piccola smorfia, ma sembrava comunque abbastanza soddisfatto del risultato da non lamentarsi oltre.

" Allora, sei convinto ora del fatto che non morirai tra pochi minuti? "

Joseph si imbronciò, incrociando le braccia. Era difficile vedere le sue espressioni, con quella maschera che gli nascondeva la bocca, ma le sue sopracciglia arcuate parlavano per lui.

" Potrei ancora morire a causa di un'infezione, non sono per niente fuori pericolo. "

Fece notare, sbuffando ancora. Caesar sospirò. Era impossibile far stare tranquillo Joseph. Non solo, era impossibile lavorare con lui se continuava a lamentarsi così.

" Senti, facciamo una cosa. Per oggi finiamola qua con gli allenamenti, avviserò io Lisa Lisa. Tu mettiti giù e riposa un poco. "

" Ma Caeeeesaaar come faccio a dormire?! Sono malato! Infortunato! Potrei morire da un momento all'altro! "

Un altro sospiro. Caesar pensò che, in fondo, se l'avesse ucciso nessuno lo avrebbe biasimato troppo. Ancora si chiedeva dove trovasse la pazienza di passare con lui tutte le sante giornate.

" Ed esattamente cosa vorresti che io facessi per risolvere questa incredibilmente distruttiva e tragica situazione? "

Joseph lo guardò allegro a quella domanda, e Caesar si pentì immediatamente di averla posta. Joseph si sporse in avanti, guardandolo da vicino, e allungò una mano per passare due dita sotto il suo mento.

" Potresti darmi una mano. Tu, la tua infinita gentilezza e l'immenso amore che provi per me, le tue bellissime ed angeliche labbra... "

Caesar roteò gli occhi e sbuffò rumorosamente. Ovviamente. Come aveva potuto non pensarci. E soprattutto, come aveva potuto cadere così facilmente nella sua dannata trappola. Stupido Joestar.

" Davvero?! "

Joseph sfoderò il suo sguardo più sicuro e penetrante, e Caesar dovette ammettere di sentirsi parecchio debole. Dannato.

" Davvero. Mi renderesti così immensamente felice, e mi aiuteresti a sentirmi meglio. In fondo sono caduto mentre mi allenavo insieme a te, per combattere questa ardua battaglia con te, e insieme potremo salvare il mondo da creature indicibili, cosa vuoi che sia un piccolo segno del tuo profondo amore per me, piccolino piccolino... "

Caesar alzò le mani, sconfitto. Tutto, pur di farlo smettere di parlare.

" E va bene. Ma sai una cosa? Quando ti libererai di quella dannata maschera, dovrai pagarmi tutto quanto con gli interessi. "

Joseph rise a bassa voce.

" Sarò lieto di farlo, luce dei miei occhi. "

Caesar gli diede una piccola spinta, e non rispose. Si limitò a guardarlo male, prima di scendere in ginocchio tra le sue gambe e allungare una mano verso i suoi pantaloni. Allargò un sorrisetto, premendo delicatamente il palmo contro il suo cavallo e roteando lentamente il polso, strofinando la mano nel modo che sapeva avrebbe fatto sciogliere l'altro. Joseph lasciò un gemito basso dietro la maschera, e appoggiò si appoggiò allo schienale del divanetto, il respiro già pesante. Caesar lo sentì annaspare, la maschera che probabilmente gli aveva chiuso l'ingresso dell'aria a causa del respiro poco regolare. Ben gli stava.

Pochi minuti, e Caesar sentì il membro di Joseph gonfiarsi lentamente nei pantaloni, fino a premere prepotentemente contro il tessuto. Soddisfatto, aprì i pantaloni per liberarlo con una mano, avvolgendo le dita intorno alla lunghezza e tirandolo delicatamente fuori. Scese lentamente, fino ad appoggiare le labbra sul lato del suo membro, per poi strofinarle delicatamente, facendole scorrere fino alla punta. Joseph tremava visibilmente, le mani affondate nel divano, saltava appena ogni volta che contraeva troppo i muscoli della gamba ferita.
Caesar sorrise, soddisfatto. Non c'era nulla che gli piacesse più di aver quel totale controllo sull'altro. Un solo gesto, e Joseph si sarebbe sciolto tra le sue braccia, pregandolo per avere qualcosa in più. Visto quanto era stato irritante tutto il giorno, avrebbe anche potuto vendicarsi. Ma in fondo Joseph era ferito, prendersi gioco di lui in quel momento era fin troppo crudele.

Caesar avvolse le labbra attorno alla sua punta, per poi scendere lentamente. Cominciò a succhiare il suo membro con movimenti lenti, la mano che stringeva la base con forza, massaggiandola a ritmo.
Joseph, come sempre, non era per niente in grado di stare zitto. Lasciava piccoli mugolii, intervallati da mezze parole e complimenti sconnessi nei confronti del compagno. Allungò una mano tra i capelli biondi dell'italiano, senza premerlo, semplicemente carezzando i suoi capelli, con una delicatezza che a prima vista poteva non sembrare la sua prima qualità.

Quando Joseph si avvicinò al limite, tentò di avvertire Caesar tirando un poco i suoi capelli. L'italiano, in risposta, scese meglio sul suo membro, succhiandolo con più forza, fino a sentirlo venire nella propria bocca. Joseph respirava pesante, e tremava ancora quando Caesar si rialzò, un sorrisetto soddisfatto sul volto, pulendosi l'angolo della bocca con il dorso della mano. Joseph deglutì rumorosamente.

" G-Grazie, Caesar. "

" Non te la tiri più così tanto adesso, eh? Beh, figurati, Joestar. Ma se la prossima volta che ti fai male ti lamenti di nuovo così tanto, giuro che ti lascio alle cure di Lisa Lisa. "

Joseph sbiancò visibilmente. Caesar decise che probabilmente aveva spiegato più che chiaramente come stavano le cose. Diede una pacca sulla spalla a Joseph, che sembrava ancora scosso a quella idea.
" Mi raccomando, dormi bene. Non vorrei che il tuo prossimo infortunio capiti troppo presto... "


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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi: Mohammed Abdul, Jean Pierre Polnareff

Rating: Safe

Wordcount: 1282

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Mettersi a ridere all'improvviso

La luce entrava dalla finestra mezza chiusa, illuminando morbidamente la stanza. La temperatura era calda, ma secca abbastanza da non essere fastidiosa, le lenzuola erano morbide, il materasso comodo, il cuscino alto. Abdul sospirò, mentre si svegliava lentamente, aprendo gli occhi per guardare con un sorriso il soffitto sopra di lui. Tutto sembrava perfetto in quell'esatto, piccolo momento, quel lampo di tempo prima dell'inizio della giornata. Era sempre stato uno dei suoi momenti preferiti della giornata, quei pochi secondi in cui puoi prenderti un momento solo ed esclusivamente per te, senza pensare alla giornata che ti aspetta. Avevano affrontato cose indicibili durante quel viaggio, avevano visto poteri che non credevano possibili, avevano dovuto combattere per la propria vita ormai innumerevoli volte. Abdul stesso aveva visto la morte così da vicino, che la paura ci aveva messo giorni a lasciarlo andare.
Ma in quel momento non importava, tutto ciò che importava era il calore tiepido che lo circondava, il letto comodo, e la luca confortevole che creava una piacevole atmosfera. E soprattutto il peso delicato del corpo grosso ma sottile di fianco a lui, il respiro lento e regolare interrotto ogni tanto da qualche verso basso di Polnareff, che dormiva serenamente.
Abdul sorrise, ripensando alla sera prima. Erano giorni ormai che l'egiziano cercava di avvicinarsi al suo compagno di viaggio, così elegante ed affascinante da disturbare il suo sonno la notte. E Polnareff aveva giocato, per qualche tempo. O forse era solo intimidito da Abdul, o dall'idea di avvicinarsi troppo a lui, proprio durante quel viaggio in cui rischiavano la vita ogni giorno.
Alla fine, però, entrambi avevano ceduto, dimenticandosi tutte le preoccupazioni e tutti i rischi, e concentrandosi per una volta su ciò che volevano davvero. Era stata una notte passionale, ma anche dolce, ed Abdul aveva finalmente potuto sussurrare delicatamente al suo orecchio tutto ciò che aveva pensato in quei lunghi giorni. Era incredibile pensare che un viaggio come quello potesse portare qualcosa di prezioso nella sua vita, ma era ciò che era successo, e Abdul aveva imparato da molto tempo a non mettere in discussione ciò che il destino decideva per ognuno di loro.



Polnareff si mosse di fianco a lui, rotolando fino a poggiarglisi contro, e Abdul allungò un braccio per stringerlo meglio contro di sé, continuando a guardare il soffitto e a pensare alla sera prima, un sorriso rilassato sulle labbra.

" Hey... Abdul. Buongiorno... "

Mugugnò a mezza voce il francese, e Abdul sorrise contento, nel sentire la sua voce impastata dal sonno. Era bassa e morbida, quasi simile a quella di un bambino. Adorabile.

" Buongiorno. Come ti senti? "

" Ho voglia di una doccia... "

Borbottò l'altro. Abdul ridacchiò piano, decidendo che il bisogno del francese era più che giustificato. La sera prima erano davvero troppo stanchi per potersi lavare prima di addormentarsi, e il risultato era che sudore e altri liquidi avevano finito per appiccicarsi addosso ad entrambi, ma soprattutto addosso a Polnareff. Così, Abdul decise di avere pietà di lui e rilassò il braccio, permettendogli di alzarsi. Polnareff rotolò giù dal letto e si avviò lentamente verso il bagno, mentre Abdul cercava senza grande voglia la forza di alzarsi ed iniziare quella che sarebbe stata un'altra lunga giornata di viaggio.
Mancava ancora molto alla loro destinazione. Erano al Cairo, certo, e gran parte del viaggio era alle spalle, ma erano ancora in alto mare con la ricerca della base di DIO. Sembrava introvabile, nessuno nell'intera città riusciva a riconoscere quell'edificio, ed ormai stavano perdendo le speranze.
Abdul sospirò e si alzò a sedere, guardandosi attorno. I vestiti di entrambi erano sparsi per terra, così decise di raccoglierli e dividerli, per poi piegare quelli di Polnareff e lasciarli sul letto, pronti per quando l'altro sarebbe uscito dalla doccia. Preparò i suoi da parte, visto che anche lui avrebbe dovuto lavarsi.

Aspettò con tranquillità che il francese finisse di lavarsi, ma era già mattinata inoltrata e presto sarebbero arrivati Joseph e gli altri a chiamarli. E Abdul non aveva alcuna intenzione di uscire da lì senza lavarsi. Così, quando sentì il getto della doccia chiudersi, decise che Polnareff doveva aver almeno finito con quella, e dopo aver bussato un paio di volte aprì delicatamente la porta, per poter andare a lavarsi lui.

Fu quello, il momento incriminato. L'esatto momento in cui Abdul sollevò lo sguardo su Polnareff e lo vide davanti allo specchio, l'asciugamano intorno alla vita, e l'aria appena interrogativa. Ma soprattutto, i suoi lunghi capelli, nel bel mezzo delle operazioni per essere sapientemente acconciati, erano sparsi ovunque, dritti sulla sua testa, sparati in ogni direzione. Abdul sbatté gli occhi un paio di volte, guardando il francese incorniciato da quella che sembrava una criniera argentata dalle fatture decisamente molto discutibili, e prima che se ne potesse rendere conto scoppiò a ridere. Non voleva offenderlo, ovviamente, lo trovava solo buffo, ma Polnareff non sembrò prenderla bene.
Lo guardò male, e prima che l'altro potesse dire qualcosa prese la porta e la chiuse di scatto, facendola tra l'altro finire sul naso di Abdul.
Abdul si lamentò ad alta voce, massaggiandosi il naso. Ma nessuna delle sue scuse fu accettata dal francese.

Inutile dire che l'egiziano dovette rinunciare alla sua agognata doccia.

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La sera era ormai calata da qualche ora, ma il gruppo era tornato all'albergo solo da pochi minuti. Abdul seguì Polnareff in camera, sospirando sconfitto. Era da tutto il giorno che il francese gli teneva il muso, rifiutandosi di accettare le sue scuse e in generale di rivolgergli mezza parola.

"... Hey, pensi di parlarmi, adesso? "

Polnareff rimase ancora in silenzio, il volto imbronciato mentre si preparava un tè. Abdul sospirò, e si avvicinò a passo lento, fino a mettersi dietro di lui. Si sporse piano, baciando delicatamente il suo collo. A quanto pareva, era abbastanza. Polnareff si girò di scatto, guardandolo male.

" Ti sei messo a ridere! Dei miei capelli! "

Abdul sgranò gli occhi.

" Ma--- Non era per te, dai, era solo--- Non ti ho mai visto con i capelli in disordine e--- Eri buffo... "

Polnareff sbuffò ancora, un'espressione tradita sul volto.

" Beh?! Stavo ancora finendo di acconciarli! Sei terribile! Mi hai insultato in un momento di debolezza! E non mi aveva neanche chiesto se potevi entrare! Hai distrutto la mia reputazione! "

Abdul non sapeva come rispondere. Allungò le mani, cercando di calmarlo, e provò a parlare lentamente, sperando di non dire nulla di male. come diavolo si era messo in quella situazione?

" Polnareff, non volevo deriderti. Eri solo buffo, ma in un modo estremamente... Carino. Vederti al mattino quando non sei ancora pronto è stata una cosa estremamente dolce. Sei bello sempre, anche quando sei spettinato. Non volevo ferire i tuoi sentimenti, voglio chiederti sinceramente scusa. "

Polnareff borbottò a bassa voce, incrociando le braccia. Aveva ancora il broncio ma sembrava meno arrabbiato. Forse. Abdul non ne era totalmente sicuro.

" ... Davvero era solo per quello? "

Chiese ancora, tra un borbottio e l'altro. Abdul sorrise dolcemente.

" Certo. Mi dispiace, avrei dovuto essere più sensibile. Ma magari, domattina, potresti farmi vedere come aiutarti. Sarebbe un onore poterti dare una mano con i tuoi capelli. Sono bellissimi. "

Polnareff allargò un piccolissimo sorriso, a quel complimento. Alzò di nuovo la testa, per guardarlo timidamente. Sembrò pensarci su qualche secondo, poi si sporse piano verso di lui, poggiando un bacino sulle sue labbra. Abdul sorrise, sollevato.

" Sarebbe molto bello. Però non svelare i miei segreti al vecchio. "

Abdul rise a bassa voce, e allungò le mani per prenderlo per i fianchi, trascinandolo contro di sé.

" Non lo dirò a nessuno. Acconciare i tuoi capelli è un onore solo mio. "
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures

Personaggi:
 Yukako Yamagishi, Koichi Hirose

Rating:
Safe

Wordcount: 1355

Iniziativa: CowT 9 - Settimana 4; Addormentarsi e Sognare



Koichi dormiva sereno, gli occhi chiusi e le mani aggrappate al cuscino che teneva sotto la testa, i capelli argentati sparsi disordinatamente sul cuscino. Sembrava un angelo, il respiro sereno che alzava il suo petto con movimenti lenti e ritmici, le labbra semiaperte che lasciavano uscire un filo d'aria tiepida ogni volta che espirava. Yukako non ricordava di aver mai visto qualcosa di così bello. Koichi era già perfetto quando era sveglio, con la sua mente brillante e i suoi modi gentili, sempre pronto ad aiutare gli altri e sempre pronto ad imparare qualcosa di nuovo. Ma quando dormiva era ancora più bello. Sembrava così rilassato, così libero da tutti i problemi che lo affliggevano ogni giorno, dalla preoccupazione per i suoi amici dalle tendenze decisamente troppo spericolate, e dalla paura per le situazioni in cui volente o nolente ogni tanto si ritrovava, in quanto portatore di stand. Mentre dormiva, sembrava semplicemente un normale ragazzo della sua età, stanco dopo una sessione di studio particolarmente intensa (Yukako si era assicurata che lo fosse, visto che i suoi voti si erano un tantino abbassati nelle ultime prove), che non aveva altro da preoccuparsi se non la successiva interrogazione di inglese.

Yukako prese una copertina leggera, e con movimenti attenti e delicati la stese sul corpo di Koichi, guardandolo con un sorriso delicato. Lui si mosse appena nel sonno, agitò un paio di volte le gambe corte e prese il lembo della coperta tra le dita, tirandosela meglio sopra. Yukako ridacchiò piano, e prese una sedia per sedersi accanto al divano, continuando ad osservarlo mentre finiva i suoi compiti di matematica.
Si chiese cosa stesse sognando, quel ragazzo così dolce e gentile, e si chiese se sognava qualcosa di bello. Sembrava molto rilassato, magari stava sognando di una passeggiata nei boschi, o anche solamente di una giornata passata a divertirsi con i suoi amici. Yukako aveva imparato ad apprezzare tutto ciò che faceva parte della vita di Koichi, aveva imparato a lasciarlo andare, aveva imparato a non tenerlo legato quando non voleva esserlo. E Koichi, incredibilmente, l'aveva perdonata per gli errori che aveva commesso ed era tornato da lei, con la sua fiducia così disarmante, e il suo ottimismo contagioso.

Koichi si mosse ancora un poco nel sonno, agitandosi appena. Yukako alzò la testa dal quaderno e lo osservò con le sopracciglia aggrottate, impensierita da quei movimenti. Koichi aveva la fronte aggrottata e biascicava appena nel sonno, muovendosi e stringendo più volte la coperta tra le mani. La ragazza si irrigidì, impensierita, e tentò di avvicinarsi per svegliarlo. Si fermò a metà strada però, perché in fondo Koichi dormiva solo da poco ed era davvero stanco, si sentiva in colpa a svegliarlo così presto. Allo stesso tempo, sembrava agitato, e il sonno agitato non l'avrebbe di certo aiutato. Rimase ferma a pensarci, cercando di soppesare le possibilità per decidere cosa fare.
Ben presto, i suoi pensieri vennero interrotti da piccoli mugolii del ragazzo, che si muoveva ancora sotto la copertina. Yukako si avvicinò meglio, per capire cosa stesse mugugnando nel sonno, o almeno capire se stava effettivamente parlando o se erano solamente suoni sconnessi.

" Hmmgn... Yu...kako-san... gnnn.."

Yukako sbatté gli occhi un paio di volte, senza riuscire a trattenere il sorriso che lentamente le spuntava sulle labbra. Lei? Koichi stava sognando lei? Yukako non se ne capacitava. Insomma, certo, stavano assieme da qualche mese e passavano molto tempo assieme, facevano i compiti assieme e Yukako si assicurava sempre che Koichi arrivasse a casa propria nei giusti orari e dormisse il giusto, ma una parte di lei ancora non ci credeva, di essere davvero arrivata a potergli stare così vicino. Ancora non riusciva a credere che il ragazzo potesse provare qualcosa di simile per lei. Certo, aveva sempre saputo che erano destinati a stare insieme, ma Koichi era sempre stato duro di comprendonio, non pensava avrebbe potuto capirlo così in fretta.
Lo guardò incuriosita, e lo vide agitarsi ancora un pochino, qualche goccia di sudore gli gli imperlava la fronte. La ragazza si preoccupò, forse Koichi aveva caldo e la coperta non stava aiutando, così decise di prendere delicatamente i lembi e staccare con gesti gentili le sue mani da essi, attenta a non svegliarlo. Koichi mugugnò ancora qualcosa, ma non si svegliò, così Yukako poté prendere la coperta e toglierla delicatamente da sopra di lui, ripiegandola con attenzione e poggiandola sulla sedia più vicina. Soddisfatta, tornò al suo posto, di fianco al divano, per tornare ad osservare Koichi. Era sicura si sarebbe sentito meglio senza coperta, però sembrava starsi ancora agitando, e le piccole gocce di sudore sembravano essere aumentate, anche se di poco. Yukako cominciò a preoccuparsi, se Koichi si fosse preso un'influenza mentre era a casa sua non se lo sarebbe mai perdonato. Avrebbe dovuto chiudere meglio le finestre, o forse accendere il riscaldamento, o forse farlo vestire più pesante, dargli una copertina anche mentre stava facendo i compiti, o...
Oh.
Mentre il suo sguardo scorreva freneticamente lungo il corpo vestito del ragazzo, alla ricerca dei segni della febbre o di qualsiasi altra cosa potesse provargli fastidio, Yukako notò un lieve rigonfiamento all'altezza del suo cavallo. Guardò attentamente la zona, sbattendo un po' gli occhi, il rossore che lentamente saliva sulle sue guance.
Koichi era... aveva... mentre stava sognando...?
Yukako sentì il viso avvampare, e in un impeto di vergogna corse a prendere di nuovo la coperta, lanciandola ancora piegata sulla faccia di Koichi.
Il ragazzo si svegliò di colpo, tirandosi su di scatto e quasi cadendo dal divano a causa del movimento improvviso.

" Yukako-san! Succede qualcosa?! "

Chiese subito, ancora sperso ma subito preoccupato per gli altri, come era sempre. Yukako aveva il volto nascosto tra le mani, e gli stava dando la schiena, ancora troppo imbarazzata per farsi vedere.

" K-Koichi! S-Se volevi fare certe cose avresti dovuto chiedere, sai?! Non si pensa ad una ragazza in quel modo senza chiedere, è da maleducati! "

" Cosa--- Che cosa stai dicendo, Yukak--- "

Il ragazzo si fermò a metà frase, Yukako sentì il silenzio calare per qualche secondo, e poi un urlo allarmato salire da dietro di lei. Sentì Koichi rotolare per terra, mentre si agitava, e il fruscio della coperta mentre probabilmente cercava di avvolgersela addosso.

" No, mi dispiace! Non volevo! Non era mia intenzione, io--- Non penserei mai a te cos--- "

Yukako si voltò di scatto, lo sguardo glaciale che si posava su Koichi. Il ragazzo si zittì di colpo, improvvisamente estremamente preoccupato. Yukako lo guardava con gli occhi colmi di rabbia tagliente.

" Cosa?! Io sono la tua ragazza, Koichi! Osi dire che non penseresti mai a me in quei termini?! Osi forse dire che non sono abbastanza bella per te?! "

La collera nella voce di Yukako fece rimpicciolire Koichi ancora di più, e il ragazzo balbettò qualcosa, cercando la cosa migliore da dire.

" No hai ragione, ho sbagliato! Non volevo dire quello! Io--- Io--- Intendevo dire che mi dispiace non averti detto nulla, non avrei mai voluto mancarti di rispetto! "

Yukako lo guardò fisse qualche secondo, i capelli lunghi corvini che ondeggiavano lentamente alle sue spalle. Rifletté qualche secondo sulle sue parole, e alla fine decise che poteva accettarlo, in fondo. I capelli smisero lentamente di muoversi, e lei incrociò le braccia, guardando da un'altra parte, un piccolo broncio sul viso.

" Se davvero mi rispetti così tanto, la prossima volta lascerai che io me ne prenda cura. "

Disse decisa, voltandosi verso di lui e indicando con un dito il suo pacco (ormai tornato normale, visto lo spavento). Koichi arrossì di colpo, e la guardò. Balbettò un paio di volte, spostò lo sguardo a destra e sinistra, visibilmente imbarazzato.

" Io... Ma sei sicura... Insomma... Io.... Beh.... Credo... Va bene... "

Yukako allargò un sorriso a quelle parole, la collera scomparsa in un attimo. Si avvicinò a Koichi e si abbassò per abbracciarlo, sollevandolo da terra. Lui si agitò un poco, ma un piccolo sorriso gli spuntò sulle labbra.

" Va bene, Koichi. Mi prenderò io cura di te la prossima volta. In fondo, nessuno potrebbe farlo meglio di me. "
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