Nine Inch Nails 500 Words Challenge
Mar. 23rd, 2019 12:23 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Sentirsi chiamare e non riconoscere il proprio nome. Guardarsi allo specchio e non riconoscere la persona dall'altra parte. Era tutto così confuso, ogni giorno era più difficile ritrovare la direzione in cui proseguire.
Da quando si era risvegliato su quella spiaggia, senza un solo ricordo di se stesso, Josuke viveva giorno per giorno, senza sapere cosa volere e cosa aspettarsi dalla vita. Gli Higashikata lo avevano accolto come uno di loro, ma nulla lo faceva sentire a casa. Era come vivere in una bolla, sapendo di appartenere ad un mondo diverso e lontano, ma senza ricordarsi quale esso fosse.
Era sera, e Josuke stava guardando il cielo stellato, cercando di riconoscere alcune delle costellazioni. Era difficile distinguere i puntini luminosi, ma Josuke aveva un'ottima vista. Riusciva, ad occhio, a calcolare la distanza approssimativa che divideva ogni stella dalla sua vicina. Riusciva contare quante foglie nel cespuglio della casa di fianco erano pronte a cadere a causa della stagione fredda. Poteva calcolare distanze, quantità, mille informazioni gli riempivano la testa in ogni momento, e il suo cervello non si affaticava mai, le riordinava attentamente secondo criteri di scelta che solo lui conosceva, e che Josuke non sapeva riconoscere.
Secondo Yasuho, gli altri esseri umani non erano in grado di fare la stessa cosa. Non senza allenamento, almeno. Poteva essere una caratteristica innata del suo stand, o forse una competenza che qualcuno gli aveva insegnato fin da piccolo. Poteva avere impianti neurali incastrati nel cervello, per quanto ne sapeva.
Ogni tanto, sentiva il desiderio di prendere un coltello e aprire la propria testa, scoprire quel cervello così allenato ma che non collaborava con lui e cavargli fuori le informazioni di cui aveva bisogno. Ma anche lui, con le sue conoscenze limitate, sapeva che non era possibile. Ed era frustrante, perché non esistevano altri modi per scoprire cos'era successo, e tutto ciò che lui poteva fare era continuare ad annaspare in quell'oceano che non riconosceva, senza sapere quale potesse essere il proprio destino.
Josuke strinse i pugni, e borbottando tirò un calcio ad una pietra nel giardino. A volte era difficile continuare a mantenere l'ottimismo, durante le mille ricerche che continuava a fare insieme a Yasuho e che continuavano a non dare alcun frutto. Certo, almeno ora sapeva di non essere un assassino seriale ossessionato dalle donne e dal fare loro del male, ma non cambiava il fatto che ci fossero ancora troppe domande a cui doveva rispondere.
Sapeva che Yasuho si rendeva conto del suo malessere, e sapeva che la cosa la faceva stare male, ma non riusciva a nascondere le emozioni come avrebbe voluto. Era un mondo troppo complicato, e a quanto pareva il suo cervello non era altrettanto allenato con esse come lo era con i numeri.
C'erano troppe cose complesse, troppe variabili, troppe incognite nella sua vita, in quel momento. Forse, come diceva Yasuho, un giorno sarebbe riuscito a scoprire tutto, e finalmente si sarebbe sentito bene. Ora, poteva solo cercare di controllare la collera che lo mangiava dall'interno.
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Fandom: Kingdom Hearts
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Una replica. Un guscio vuoto riempito di ricordi che non gli appartenevano, una stringa di dati creati appositamente per imitare la vita umana, pur non appartenendole. Era quello tutto ciò che era, il suo intero essere, la sua esistenza? Non serviva ad altro se non a svolgere un ruolo designato da qualcuno che aveva pensato e organizzato tutta la sua vita in funzione dei propri obiettivi?
Si prese la testa tra le mani, cercando di riorganizzare i propri ricordi. Erano suoi. Nonostante tutto, nonostante non fossero altro che una copia di una realtà che non gli appartenenva, essi erano tutto ciò che aveva. Tutto ciò che era era quell'insieme di dati che i suoi neuroni creati in laboratorio portavano impressi.
La sua mente faceva fatica a capire quel concetto. Era come se la frase continuasse a rimbalzare nel suo cervello, ma lui non riuscisse mai ad allungare la mano e prenderla tra le dita, manipolarla, renderla propria.
Non era altro che un esperimento. Tutto il suo essere si ribellava a quell'idea, ma non c'era nulla che potesse fare. Tutto ciò che sapeva su di sé erano i ricordi di qualcun altro. Aveva cercato di combattere contro quell'idea da quando aveva visto il "vero" Riku la prima volta, aveva continuato a combatterlo senza sosta, nel tentativo di provare a se stesso che era lui, la migliore versione di se stesso.
Ma non poteva continuare a combattere contro una realtà che non era quella vera. Non poteva continuare a negare quella che era la verità più profonda.
Una macchina. Creata per uccidere il suo se stesso reale. Riku non poteva permetterlo. Forse quello era l'orgoglio del suo originale. Quella forza che lo spingeva a ribellarsi, a combattere contro chi lo voleva silenzioso e sottomesso. O forse, si trattava dell'unico modo che aveva per potersi appigliare a qualcosa di vero, solido. La voglia di ribellarsi. L'orgoglio del suo essere se stesso. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, il bisogno di proteggere Naminé, l'unica persona che portava in quel suo cuore di plastica e dati. Non gli importava se i suoi ricordi erano falsi, la copia alterata di ricordi che non gli appartenevano. Ora erano suoi, tutto ciò che gli dava ancora un posto nel mondo, un ruolo da svolgere.
Per lei, Riku sollevò la spada, e voltò le spalle a quelli che fino a quel momento erano stati i suoi nemici. Voltò le spalle, si fidò di loro, e si alleò al vero Riku, al suo nemico più forte. Insieme, potevano battere l'Organizzazione. Insieme, potevano salvare Naminé.
Non importava quanto andasse contro ogni altra cosa i suoi creatori gli avessero insegnato. Riku non voleva più essere solo una copia. Voleva prendere le proprie decisioni, stringere tra le mani quell'orgoglio e quella voglia di proteggere il prossimo. L'altro Riku si posizionò di fianco a lui, pronto ad attaccare insieme a lui. Lui sorrise. Era incredibile come la forza di un cuore potesse cambiare le cose. Anche se quel cuore era solo una replica.
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Joseph continuava ad emerge e riaffondare, svegliarsi per qualche secondo cercando di aprire gli occhi per poi finire di nuovo avvolto a onde scure che trascinavano il suo corpo e la sua mente giù, sempre più giù.
Gli ci volle parecchio tempo, per riprendersi, La ferite erano gravi, persino con le pezze che era riuscito a mettere grazie alla respirazione essere ancora vivo era qualcosa di simile ad un miracolo, o almeno così aveva detto Suzie Q, che gli era stato accanto tutto il tempo.
Anche una volta ripresa coscienza, Joseph continuava a sentirsi come in una bolla. Era come se il mondo andasse avanti senza di lui, come se non fosse davvero sveglio, come se quello fosse solo un brutto sogno da cui prima o poi si sarebbe svegliato.
Le uniche volte in cui si sentiva sveglio era quando ricordava il volto di Caesar. Il dolore acuto che lo trapassava, come centinaia di spilli che dilaniavano il suo corpo da tutte le direzioni, quello era reale, fin troppo reale. E Joseph ne aveva paura. Così tanta paura che cercava sempre di scappare, rifugiandosi nel mondo fatto di sogni, quel mondo ovattato dove almeno il dolore era lontano. Poteva non essere reale, poteva essere solo un'eco lontana di ciò che era davvero la realtà, ma non importava. Era un mondo fatto di conversazioni leggere ed allegre con Suzie Q, un mondo fatto della sua risata squillante, che faceva sentire Joseph così leggero. Un mondo fatto dai mille tentativi della donna di alzarlo dal letto ed aiutarlo a camminare, nonostante fosse troppo piccola e fragile per farlo. Un mondo fatto dal suo sorriso, dalle sue parole dolci, dai suoi racconti di come andavano le giornate, le spese al mercato, le ore passate a pulire la residenza di Lisa Lisa. Era tutto così... Leggero. Joseph non aveva mai amato troppo le persone frivole, ma Suzie Q era dolce, e la sua voce allegra lo aiutava a dimenticare tutto. Ed ogni volta che rimaneva da solo, sentiva il dolore tornare ad inondarlo, dilaniando il suo corpo e la sua mente. Sentiva le lacrime risalire, la perdita piegarlo in due, uccidendo tutto ciò che di buono rimaneva in lui. E Joseph non poteva sopportarlo, non poteva sopportare di vivere la sua vita a quel modo. Poteva sembrare superficiale e vigliacco, ma non gli importava, non in quel momento.
Per quello, un giorno, prese una decisione. Erano in giardino, e Suzie Q si era addormentata sulla sua spalla, sonnecchiava serena appoggiata al suo fianco, e Joseph si sentiva bene, lontano da tutto ciò che di brutto e pericoloso c'era al mondo. Era quella la vita che voleva. Prendersi cura di chi amava, sentire la pace che avere intorno una famiglia gli avrebbe donato.
Abbassò la testa, svegliando delicatamente Suzie Q, che alzò lo sguardo su di lui, ancora assonnata.
"Suzie, vuoi sposarmi?"
Chiese semplicemente, sinceramente. Lei lo guardò, ma non pose nessuna domanda. Si limitò a sorridere piano, con la tenerezza che la contraddistingueva.
"Sì"
--- Fandom: Overwatch
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Sentirsi chiamare e non riconoscere il proprio nome. Guardarsi allo specchio e non riconoscere la persona dall'altra parte. Era tutto così confuso, ogni giorno era più difficile ritrovare la direzione in cui proseguire.
Da quando si era risvegliato su quella spiaggia, senza un solo ricordo di se stesso, Josuke viveva giorno per giorno, senza sapere cosa volere e cosa aspettarsi dalla vita. Gli Higashikata lo avevano accolto come uno di loro, ma nulla lo faceva sentire a casa. Era come vivere in una bolla, sapendo di appartenere ad un mondo diverso e lontano, ma senza ricordarsi quale esso fosse.
Era sera, e Josuke stava guardando il cielo stellato, cercando di riconoscere alcune delle costellazioni. Era difficile distinguere i puntini luminosi, ma Josuke aveva un'ottima vista. Riusciva, ad occhio, a calcolare la distanza approssimativa che divideva ogni stella dalla sua vicina. Riusciva contare quante foglie nel cespuglio della casa di fianco erano pronte a cadere a causa della stagione fredda. Poteva calcolare distanze, quantità, mille informazioni gli riempivano la testa in ogni momento, e il suo cervello non si affaticava mai, le riordinava attentamente secondo criteri di scelta che solo lui conosceva, e che Josuke non sapeva riconoscere.
Secondo Yasuho, gli altri esseri umani non erano in grado di fare la stessa cosa. Non senza allenamento, almeno. Poteva essere una caratteristica innata del suo stand, o forse una competenza che qualcuno gli aveva insegnato fin da piccolo. Poteva avere impianti neurali incastrati nel cervello, per quanto ne sapeva.
Ogni tanto, sentiva il desiderio di prendere un coltello e aprire la propria testa, scoprire quel cervello così allenato ma che non collaborava con lui e cavargli fuori le informazioni di cui aveva bisogno. Ma anche lui, con le sue conoscenze limitate, sapeva che non era possibile. Ed era frustrante, perché non esistevano altri modi per scoprire cos'era successo, e tutto ciò che lui poteva fare era continuare ad annaspare in quell'oceano che non riconosceva, senza sapere quale potesse essere il proprio destino.
Josuke strinse i pugni, e borbottando tirò un calcio ad una pietra nel giardino. A volte era difficile continuare a mantenere l'ottimismo, durante le mille ricerche che continuava a fare insieme a Yasuho e che continuavano a non dare alcun frutto. Certo, almeno ora sapeva di non essere un assassino seriale ossessionato dalle donne e dal fare loro del male, ma non cambiava il fatto che ci fossero ancora troppe domande a cui doveva rispondere.
Sapeva che Yasuho si rendeva conto del suo malessere, e sapeva che la cosa la faceva stare male, ma non riusciva a nascondere le emozioni come avrebbe voluto. Era un mondo troppo complicato, e a quanto pareva il suo cervello non era altrettanto allenato con esse come lo era con i numeri.
C'erano troppe cose complesse, troppe variabili, troppe incognite nella sua vita, in quel momento. Forse, come diceva Yasuho, un giorno sarebbe riuscito a scoprire tutto, e finalmente si sarebbe sentito bene. Ora, poteva solo cercare di controllare la collera che lo mangiava dall'interno.
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Fandom: Kingdom Hearts
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Una replica. Un guscio vuoto riempito di ricordi che non gli appartenevano, una stringa di dati creati appositamente per imitare la vita umana, pur non appartenendole. Era quello tutto ciò che era, il suo intero essere, la sua esistenza? Non serviva ad altro se non a svolgere un ruolo designato da qualcuno che aveva pensato e organizzato tutta la sua vita in funzione dei propri obiettivi?
Si prese la testa tra le mani, cercando di riorganizzare i propri ricordi. Erano suoi. Nonostante tutto, nonostante non fossero altro che una copia di una realtà che non gli appartenenva, essi erano tutto ciò che aveva. Tutto ciò che era era quell'insieme di dati che i suoi neuroni creati in laboratorio portavano impressi.
La sua mente faceva fatica a capire quel concetto. Era come se la frase continuasse a rimbalzare nel suo cervello, ma lui non riuscisse mai ad allungare la mano e prenderla tra le dita, manipolarla, renderla propria.
Non era altro che un esperimento. Tutto il suo essere si ribellava a quell'idea, ma non c'era nulla che potesse fare. Tutto ciò che sapeva su di sé erano i ricordi di qualcun altro. Aveva cercato di combattere contro quell'idea da quando aveva visto il "vero" Riku la prima volta, aveva continuato a combatterlo senza sosta, nel tentativo di provare a se stesso che era lui, la migliore versione di se stesso.
Ma non poteva continuare a combattere contro una realtà che non era quella vera. Non poteva continuare a negare quella che era la verità più profonda.
Una macchina. Creata per uccidere il suo se stesso reale. Riku non poteva permetterlo. Forse quello era l'orgoglio del suo originale. Quella forza che lo spingeva a ribellarsi, a combattere contro chi lo voleva silenzioso e sottomesso. O forse, si trattava dell'unico modo che aveva per potersi appigliare a qualcosa di vero, solido. La voglia di ribellarsi. L'orgoglio del suo essere se stesso. Ma soprattutto, più di ogni altra cosa, il bisogno di proteggere Naminé, l'unica persona che portava in quel suo cuore di plastica e dati. Non gli importava se i suoi ricordi erano falsi, la copia alterata di ricordi che non gli appartenevano. Ora erano suoi, tutto ciò che gli dava ancora un posto nel mondo, un ruolo da svolgere.
Per lei, Riku sollevò la spada, e voltò le spalle a quelli che fino a quel momento erano stati i suoi nemici. Voltò le spalle, si fidò di loro, e si alleò al vero Riku, al suo nemico più forte. Insieme, potevano battere l'Organizzazione. Insieme, potevano salvare Naminé.
Non importava quanto andasse contro ogni altra cosa i suoi creatori gli avessero insegnato. Riku non voleva più essere solo una copia. Voleva prendere le proprie decisioni, stringere tra le mani quell'orgoglio e quella voglia di proteggere il prossimo. L'altro Riku si posizionò di fianco a lui, pronto ad attaccare insieme a lui. Lui sorrise. Era incredibile come la forza di un cuore potesse cambiare le cose. Anche se quel cuore era solo una replica.
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Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Joseph continuava ad emerge e riaffondare, svegliarsi per qualche secondo cercando di aprire gli occhi per poi finire di nuovo avvolto a onde scure che trascinavano il suo corpo e la sua mente giù, sempre più giù.
Gli ci volle parecchio tempo, per riprendersi, La ferite erano gravi, persino con le pezze che era riuscito a mettere grazie alla respirazione essere ancora vivo era qualcosa di simile ad un miracolo, o almeno così aveva detto Suzie Q, che gli era stato accanto tutto il tempo.
Anche una volta ripresa coscienza, Joseph continuava a sentirsi come in una bolla. Era come se il mondo andasse avanti senza di lui, come se non fosse davvero sveglio, come se quello fosse solo un brutto sogno da cui prima o poi si sarebbe svegliato.
Le uniche volte in cui si sentiva sveglio era quando ricordava il volto di Caesar. Il dolore acuto che lo trapassava, come centinaia di spilli che dilaniavano il suo corpo da tutte le direzioni, quello era reale, fin troppo reale. E Joseph ne aveva paura. Così tanta paura che cercava sempre di scappare, rifugiandosi nel mondo fatto di sogni, quel mondo ovattato dove almeno il dolore era lontano. Poteva non essere reale, poteva essere solo un'eco lontana di ciò che era davvero la realtà, ma non importava. Era un mondo fatto di conversazioni leggere ed allegre con Suzie Q, un mondo fatto della sua risata squillante, che faceva sentire Joseph così leggero. Un mondo fatto dai mille tentativi della donna di alzarlo dal letto ed aiutarlo a camminare, nonostante fosse troppo piccola e fragile per farlo. Un mondo fatto dal suo sorriso, dalle sue parole dolci, dai suoi racconti di come andavano le giornate, le spese al mercato, le ore passate a pulire la residenza di Lisa Lisa. Era tutto così... Leggero. Joseph non aveva mai amato troppo le persone frivole, ma Suzie Q era dolce, e la sua voce allegra lo aiutava a dimenticare tutto. Ed ogni volta che rimaneva da solo, sentiva il dolore tornare ad inondarlo, dilaniando il suo corpo e la sua mente. Sentiva le lacrime risalire, la perdita piegarlo in due, uccidendo tutto ciò che di buono rimaneva in lui. E Joseph non poteva sopportarlo, non poteva sopportare di vivere la sua vita a quel modo. Poteva sembrare superficiale e vigliacco, ma non gli importava, non in quel momento.
Per quello, un giorno, prese una decisione. Erano in giardino, e Suzie Q si era addormentata sulla sua spalla, sonnecchiava serena appoggiata al suo fianco, e Joseph si sentiva bene, lontano da tutto ciò che di brutto e pericoloso c'era al mondo. Era quella la vita che voleva. Prendersi cura di chi amava, sentire la pace che avere intorno una famiglia gli avrebbe donato.
Abbassò la testa, svegliando delicatamente Suzie Q, che alzò lo sguardo su di lui, ancora assonnata.
"Suzie, vuoi sposarmi?"
Chiese semplicemente, sinceramente. Lei lo guardò, ma non pose nessuna domanda. Si limitò a sorridere piano, con la tenerezza che la contraddistingueva.
"Sì"
--- Fandom: Overwatch
Rating: Safe
Wordcount: 500
Iniziativa: CowT 9
Il colpo partì in uno scoppio, e l'uomo davanti a lui cadde a terra, il sangue che si allargava in una pozza rosso rubino intorno a lui, la carne dilaniata che cadeva disordinatamente. Reaper inclinò la testa di lato, guardando il corpo inerme a terra. La vita era appena stata strappata via ad un uomo, tutto il suo futuro cancellato in una frazione di secondo, e ancora il soldato non sentiva nulla. C'era il vuoto nel suo petto e nella sua mente, si sentiva un'automa, una creatura che non era umana, che cammina sulla pericolosa linea tra vita e morte. Il suo corpo urlava di dolore in ogni momento, le cellule che morivano e rinascevano continuamente, facendolo sentire come se tutto il suo corpo fosse perennemente avvolto da un fuoco che lo bruciava e ricostruiva nel tempo di un battito di ciglia.
La sua vita era un buco nero, un incubo che andava avanti senza pausa, un fiume nero come il petrolio che erodeva tutto ciò che incontrava, senza fermarsi. C'era stato un tempo in cui aveva avuto degli ideali. Qualcosa per cui combattere, ma anche qualcosa che lo faceva arrabbiare. Qualcosa che gli piaceva, qualcosa che detestava, qualcosa che lo faceva sentire al sicuro e qualcosa che lo faceva sentire a disagio. Aveva dei gusti, un'opinione su qualcosa, un motivo per andare avanti e mettere un piede davanti all'altro.
Ora, non c'era più nulla. Solo gli ideali di caos e violenza di quelli che una volta erano stati i nemici che più odiava al mondo. Avevano ucciso dei suoi amici, si erano infiltrati nella loro stessa base. Avevano giocato sporco e l'uomo che un tempo era stato Gabriel Reyes li aveva detestati. Ora, Talon non era altro che un nome, un mezzo per continuare ad esistere. Non c'erano ideali, non c'erano obiettivi. Reaper si muoveva in quel mondo senza alcuna ragione di vivere ed esistere. Quando le sue pistole uccidevano qualcuno, una scossa passava lungo il suo corpo, una scintilla di qualcosa, che poi scompariva nel nulla, veloce come era arrivata.
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La sua vita era un buco nero, un incubo che andava avanti senza pausa, un fiume nero come il petrolio che erodeva tutto ciò che incontrava, senza fermarsi. C'era stato un tempo in cui aveva avuto degli ideali. Qualcosa per cui combattere, ma anche qualcosa che lo faceva arrabbiare. Qualcosa che gli piaceva, qualcosa che detestava, qualcosa che lo faceva sentire al sicuro e qualcosa che lo faceva sentire a disagio. Aveva dei gusti, un'opinione su qualcosa, un motivo per andare avanti e mettere un piede davanti all'altro.
Ora, non c'era più nulla. Solo gli ideali di caos e violenza di quelli che una volta erano stati i nemici che più odiava al mondo. Avevano ucciso dei suoi amici, si erano infiltrati nella loro stessa base. Avevano giocato sporco e l'uomo che un tempo era stato Gabriel Reyes li aveva detestati. Ora, Talon non era altro che un nome, un mezzo per continuare ad esistere. Non c'erano ideali, non c'erano obiettivi. Reaper si muoveva in quel mondo senza alcuna ragione di vivere ed esistere. Quando le sue pistole uccidevano qualcuno, una scossa passava lungo il suo corpo, una scintilla di qualcosa, che poi scompariva nel nulla, veloce come era arrivata.
Forse, Gabriel Reyes avrebbe voluto sapere come era finito a lavorare con loro, il gruppo terroristico che più aveva disprezzato. La verità era che Reaper trovava quasi ironica, la situazione in cui si trovava. Scegliere di schierarsi con loro era stato qualcosa di quasi naturale per lui, dopo tutto ciò che aveva passato nella sua vecchia vita. Non aveva altri modi per scegliere, era un guscio vuoto, che si riempiva solo in relazione a quella vita che non gli apparteneva più, che era lontana anni luce.
Così aveva cominciato a lavorare per loro. Era diventato uno degli assassini più temuti, una creatura che di umano non aveva quasi nulla, che faceva stragi ovunque andasse, ignorando volti, ignorando storie. Gli esseri umani avevano famiglie, avevano programmi preferiti, avevano cibi preferiti. avevano piani, posti in cui andare, cose da fare e realizzare. Reaper non aveva nulla, se non le sue armi e la scintilla della morte. E ciò gli bastava.
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Fandom: The Punisher
Rating: Safe
Wordcount: 589
Iniziativa: CowT 9
Così aveva cominciato a lavorare per loro. Era diventato uno degli assassini più temuti, una creatura che di umano non aveva quasi nulla, che faceva stragi ovunque andasse, ignorando volti, ignorando storie. Gli esseri umani avevano famiglie, avevano programmi preferiti, avevano cibi preferiti. avevano piani, posti in cui andare, cose da fare e realizzare. Reaper non aveva nulla, se non le sue armi e la scintilla della morte. E ciò gli bastava.
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Fandom: The Punisher
Rating: Safe
Wordcount: 589
Iniziativa: CowT 9
Frank aveva conosciuto la guerra. Aveva combattuto in paesi dove ogni singola persona per strada era un nemico, aveva fatto cose che avrebbero distrutto la psiche di una persona qualsiasi, aveva avuto sangue di altre persone sulle mani, perfettamente consapevole di essere stato lui a versarlo. Aveva torturato, aveva ucciso, aveva catturato, aveva minacciato. Aveva fatto cose di cui non avrebbe mai potuto parlare.
Era stato all'inferno, più volte, e non si era mai scottato. Quello era il suo mondo, il suo regno. Lì, sapeva sempre dove erano i nemici, sapeva sempre cosa fare, ed ogni cosa, anche le più indicibili, avevano una ragione. Qualsiasi cosa facesse era per proteggere la sua famiglia a casa, i suoi due bambini, sua moglie. Tutto ciò che faceva aveva una ragione, là in quel mondo che non gli apparteneva più ma per cui avrebbe dato la vita.
È quello che si dicono tutti i soldati, forse. Che quello che stanno facendo lo fanno per il proprio paese. Ma Frank non aveva bisogno di mentire a se stesso. Lo faceva per difendere il proprio paese, e lo faceva perché gli piaceva, perché ciò per cui era nato, perché quello era ciò che era. Perché era un soldato e nell vita non avrebbe mai potuto fare altro.E in guerra, tutto aveva un ordine. Il suo mondo era esattamente come doveva essere. Non gli importava dei grandi capi che mandavano la gente a morire, non gli importava dei mille problemi che si sarebbe portato addosso per tutta la vita. Sapeva di non essere una buona persona, sapeva che non lo sarebbe mai stato, e gli stava bene.In guerra, tutto andava bene.
Ciò che teneva sveglio Frank la notte erano i ricordi di casa. Era la sua bambina che si addormentava con la testa sulla sua spalla, mentre lui leggeva una delle sue storie preferite, il suo fiato leggero che gli solleticava il collo facendolo sorridere. Era guardare il suo ragazzo disegnare e sapere che un giorno sarebbe diventato un pittore, perché aveva talento, lo aveva davvero. Era guardare sua moglie e aiutarla in cucina, in una tiepida giornata di primavera.
Era quel giorno al parco. Era la tovaglia da pic nic sporca di sangue.Era la testa della sua bambina poggiata sulla propria spalla, ma questa volta distrutta dai proiettili, grondante sangue sui suoi vestiti, il suo respiro che non solleticava più la sua pelle.
Frank aveva visto morire tante persone. Aveva visto la guerra in faccia ed era tornate indietro, come un bravo soldato. Ma quando la guerra l'aveva seguito fino a casa ed aveva bussato alla sua porta, non aveva fatto nulla per fermarla. E il senso di colpa bruciava nelle sue vene ogni giorno, perché forse avrebbe potuto fare qualcosa, forse avrebbe dovuto saperlo. Se solo fosse stato attento...
Frank si svegliava di notte, ma non era la guerra a perseguitarlo. Era la morte, era l'impotenza, era ciò che un soldato temeva ogni secondo della sua vita. E non poteva fare nulla per cambiare ciò che era successo. E il suo petto bruciava di un dolore che non aveva mai provato prima.Tutto ciò che gli rimaneva era quella guerra che era stata trascinata nel suo mondo, nella sua casa, nella realtà che aveva sempre cercato di difendere. Ed ora, non poteva fare altro che prendere in mano le armi e andare a vendicarsi.
Gli incubi non sarebbero mai finiti, questo lo sapeva. Ma forse, solo forse, avrebbe potuto punire chi aveva pensato di poterlo spezzare senza subirne le conseguenze.
---Era stato all'inferno, più volte, e non si era mai scottato. Quello era il suo mondo, il suo regno. Lì, sapeva sempre dove erano i nemici, sapeva sempre cosa fare, ed ogni cosa, anche le più indicibili, avevano una ragione. Qualsiasi cosa facesse era per proteggere la sua famiglia a casa, i suoi due bambini, sua moglie. Tutto ciò che faceva aveva una ragione, là in quel mondo che non gli apparteneva più ma per cui avrebbe dato la vita.
È quello che si dicono tutti i soldati, forse. Che quello che stanno facendo lo fanno per il proprio paese. Ma Frank non aveva bisogno di mentire a se stesso. Lo faceva per difendere il proprio paese, e lo faceva perché gli piaceva, perché ciò per cui era nato, perché quello era ciò che era. Perché era un soldato e nell vita non avrebbe mai potuto fare altro.E in guerra, tutto aveva un ordine. Il suo mondo era esattamente come doveva essere. Non gli importava dei grandi capi che mandavano la gente a morire, non gli importava dei mille problemi che si sarebbe portato addosso per tutta la vita. Sapeva di non essere una buona persona, sapeva che non lo sarebbe mai stato, e gli stava bene.In guerra, tutto andava bene.
Ciò che teneva sveglio Frank la notte erano i ricordi di casa. Era la sua bambina che si addormentava con la testa sulla sua spalla, mentre lui leggeva una delle sue storie preferite, il suo fiato leggero che gli solleticava il collo facendolo sorridere. Era guardare il suo ragazzo disegnare e sapere che un giorno sarebbe diventato un pittore, perché aveva talento, lo aveva davvero. Era guardare sua moglie e aiutarla in cucina, in una tiepida giornata di primavera.
Era quel giorno al parco. Era la tovaglia da pic nic sporca di sangue.Era la testa della sua bambina poggiata sulla propria spalla, ma questa volta distrutta dai proiettili, grondante sangue sui suoi vestiti, il suo respiro che non solleticava più la sua pelle.
Frank aveva visto morire tante persone. Aveva visto la guerra in faccia ed era tornate indietro, come un bravo soldato. Ma quando la guerra l'aveva seguito fino a casa ed aveva bussato alla sua porta, non aveva fatto nulla per fermarla. E il senso di colpa bruciava nelle sue vene ogni giorno, perché forse avrebbe potuto fare qualcosa, forse avrebbe dovuto saperlo. Se solo fosse stato attento...
Frank si svegliava di notte, ma non era la guerra a perseguitarlo. Era la morte, era l'impotenza, era ciò che un soldato temeva ogni secondo della sua vita. E non poteva fare nulla per cambiare ciò che era successo. E il suo petto bruciava di un dolore che non aveva mai provato prima.Tutto ciò che gli rimaneva era quella guerra che era stata trascinata nel suo mondo, nella sua casa, nella realtà che aveva sempre cercato di difendere. Ed ora, non poteva fare altro che prendere in mano le armi e andare a vendicarsi.
Gli incubi non sarebbero mai finiti, questo lo sapeva. Ma forse, solo forse, avrebbe potuto punire chi aveva pensato di poterlo spezzare senza subirne le conseguenze.
Fandom: JoJo's Bizzarre Adventures
Rating: Safe
Rating: Safe
Wordcount: 505
Iniziativa: CowT 9
Josuke non sapeva come era successo. Ma era ubriaco, e l'unico hotel che avevano trovato in piena notte aveva un solo letto libero, e si era trovato a dover dormire nello stesso con Jotaro, l'uomo più affascinante che avesse mai conosciuto e che aveva fissato per tutta la sera, ed era semplicemente successo.
"Josuke, sei ubriaco."
Si lamentò il nipote contro le sue labbra, mentre cercava di allontanarlo con le mani, ma il cervello di Josuke si rifiutava di accettare quella risposta. Da troppo tempo lo voleva, da troppo tempo non faceva altro che pensare come potessero essere le sue labbra, la sensazione del suo corpo sul proprio, la forza delle sue braccia.Era ancora vacanza, non aveva scuola, l'ultimo stand nemico che avevano trovato ora era ricoverato in ospedale, e quella sera era stato il compleanno di Rohan e tutti avevano bevuto un po' troppo, ma Josuke non se ne pentiva.
"Non mi interessa."
Rispose solo, cercando di attaccare di nuovo le sue labbra. Jotaro lasciò un solo sospiro silenzioso, per poi prenderlo di nuovo dalle spalle e allontanarlo.
"A me sì. Vai a dormire."
Josuke allargò un sorrisetto, sistemandosi meglio sulle sue gambe, e si strofinò con il sedere contro il suo cavallo. Poteva negare, poteva mentire quanto voleva, ma Josuke sapeva guardare nei suoi, oltre tutte le sue difese, e vedere ciò che realmente desiderava. Il suo sorriso si allargò, quando sentì la sua erezione premere contro i propri pantaloni. Jotaro cercò di tirarsi via subito, allontanandosi da lui per quanto la posizione gli permetteva.
"Non mi sembra che ti interessi così tanto."
Commentò Josuke, e Jotaro lo fulminò con lo sguardo, per poi prendere le sue braccia ed obbligarlo a scendere con una forza che doveva decisamente essere quella di Star Platinum.Josuke cadde sul materasso, vide Jotaro girarsi dandogli la schiena, e deglutì una volta.
"Dormi."
Disse solo Jotaro, il tono duro. Josuke si strinse le braccia, la mente appena più lucida a causa del movimento improvviso, la vergogna che saliva lungo la sua pelle facendolo tremare appena. Doveva essere uno stupido, a pensare di interessare a Jotaro. E doveva essere uno stupido a provarci con suo nipote di 12 anni più grande, pensando che avrebbe portato da qualche parte. Forse la reazione di Jotaro non era altro che pura reazione fisica, dovuta al suo continuo strofinarsi. Josuke deglutì ancora, cercando qualcosa da dire, senza trovarlo.
Allungò appena una mano, poggiandola delicatamente sulla schiena dell'altro in una silenziosa scusa, prima di chiudere delicatamente gli occhi.
"Josuke. Ne parleremo quando non sarai ubriaco."
La voce di Jotaro era dura come sempre, ma sembrava nascondere qualcosa che Josuke poteva solo interpretare come senso di colpa. Vide la mano di Star Platinum emergere lentamente dal corpo di Jotaro e voltarsi verso di lui, fino ad avvolgere le dita attorno alla sua mano, in una presa delicata. Josuke guardò la mano viole per qualche secondo, ancora confuso, ma la sua stretta era piacevole, e lui aveva sonno. Forse poteva aspettare fino al mattino dopo.
Iniziativa: CowT 9
Josuke non sapeva come era successo. Ma era ubriaco, e l'unico hotel che avevano trovato in piena notte aveva un solo letto libero, e si era trovato a dover dormire nello stesso con Jotaro, l'uomo più affascinante che avesse mai conosciuto e che aveva fissato per tutta la sera, ed era semplicemente successo.
"Josuke, sei ubriaco."
Si lamentò il nipote contro le sue labbra, mentre cercava di allontanarlo con le mani, ma il cervello di Josuke si rifiutava di accettare quella risposta. Da troppo tempo lo voleva, da troppo tempo non faceva altro che pensare come potessero essere le sue labbra, la sensazione del suo corpo sul proprio, la forza delle sue braccia.Era ancora vacanza, non aveva scuola, l'ultimo stand nemico che avevano trovato ora era ricoverato in ospedale, e quella sera era stato il compleanno di Rohan e tutti avevano bevuto un po' troppo, ma Josuke non se ne pentiva.
"Non mi interessa."
Rispose solo, cercando di attaccare di nuovo le sue labbra. Jotaro lasciò un solo sospiro silenzioso, per poi prenderlo di nuovo dalle spalle e allontanarlo.
"A me sì. Vai a dormire."
Josuke allargò un sorrisetto, sistemandosi meglio sulle sue gambe, e si strofinò con il sedere contro il suo cavallo. Poteva negare, poteva mentire quanto voleva, ma Josuke sapeva guardare nei suoi, oltre tutte le sue difese, e vedere ciò che realmente desiderava. Il suo sorriso si allargò, quando sentì la sua erezione premere contro i propri pantaloni. Jotaro cercò di tirarsi via subito, allontanandosi da lui per quanto la posizione gli permetteva.
"Non mi sembra che ti interessi così tanto."
Commentò Josuke, e Jotaro lo fulminò con lo sguardo, per poi prendere le sue braccia ed obbligarlo a scendere con una forza che doveva decisamente essere quella di Star Platinum.Josuke cadde sul materasso, vide Jotaro girarsi dandogli la schiena, e deglutì una volta.
"Dormi."
Disse solo Jotaro, il tono duro. Josuke si strinse le braccia, la mente appena più lucida a causa del movimento improvviso, la vergogna che saliva lungo la sua pelle facendolo tremare appena. Doveva essere uno stupido, a pensare di interessare a Jotaro. E doveva essere uno stupido a provarci con suo nipote di 12 anni più grande, pensando che avrebbe portato da qualche parte. Forse la reazione di Jotaro non era altro che pura reazione fisica, dovuta al suo continuo strofinarsi. Josuke deglutì ancora, cercando qualcosa da dire, senza trovarlo.
Allungò appena una mano, poggiandola delicatamente sulla schiena dell'altro in una silenziosa scusa, prima di chiudere delicatamente gli occhi.
"Josuke. Ne parleremo quando non sarai ubriaco."
La voce di Jotaro era dura come sempre, ma sembrava nascondere qualcosa che Josuke poteva solo interpretare come senso di colpa. Vide la mano di Star Platinum emergere lentamente dal corpo di Jotaro e voltarsi verso di lui, fino ad avvolgere le dita attorno alla sua mano, in una presa delicata. Josuke guardò la mano viole per qualche secondo, ancora confuso, ma la sua stretta era piacevole, e lui aveva sonno. Forse poteva aspettare fino al mattino dopo.
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